A Doba, città petrolifera a sud del Ciad, «le ragazzine portano braccialetti di diverso colore a seconda della disponibilità o meno all’acquisto. Carne umana a listino. Alcune finiscono su rotte interne, altre sono smistate fuori dal paese per andare a rimpolpare il circuito internazionale della tratta».
Di questo commercio di donne, aberrazione del nuovo millennio (e retaggio del vecchio), parla padre Filippo Ivardi Ganapini in un articolo appena pubblicato su Nigrizia (cliccate qui), in occasione della VII Giornata Mondiale contro la Tratta di esseri umani e lo sfruttamento sessuale, che cade oggi.
Ogni 8 febbraio si celebra un evento che è la ricorrenza della memoria liturgica di santa Giuseppina Bakhita, schiava sudanese liberata e divenuta religiosa canossiana, canonizzata nel 2000 da Giovanni Paolo II.
La Giornata contro la Tratta è diventata occasione di riflessione e di preghiera: capire il contesto, le cause e le complicità internazionali – come suggerito dalla Tete interbazionale di religiose Talitha Kum che da anni contrastano il fenomeno – serve a mettere a nudo le motivazioni profonde e ad invertire la rotta.
«Attratte dalle campagne del sud con la promessa di lauti guadagni per lavori domestici, sottopagate e spesso abusate sessualmente, le giovani si ritrovano coinvolte in un traffico che le utilizza finché servono», scrive ancora padre Ivardi.
Oggi è stata indetta una maratona di preghiera, dalle 10 alle 17 (in diretta streaming sul canale YouTube della Giornata mondiale contro la tratta) con traduzioni in cinque lingue, che attraverserà le diverse aree del pianeta.
«Per lottare contro questo fenomeno non basta reprimere il crimine ma serve andare alle cause profonde per riconoscerle e smantellarle – si legge nell’articolo di Ivardi – : un sistema economico neoliberista che mette al centro il profitto e non le persone umane, leggi migratorie che non tutelano i più fragili e una cultura maschilista del patriarcato per lo sfruttamento sessuale che è molto radicata in diverse società».