Il luogo dove è presente la missione intercongregazionale di Haiti è lontano dalla regione devastata dal terremoto del 14 agosto scorso.
Ma Môle Saint Nicolas, questo il nome della città dove abitano da oltre nove anni le tre religiose di altrettante congregazioni, si trova nella zona più povera e meno sviluppata dell’isola, il che è tutto dire.
Sì, perché Haiti – oltre ad essere il Paese più indigente del continente americano – vive ancora le conseguenze del sisma del 2010 e dell’uragano Matthew del 2016, e l’instabilità dopo l’assassinio del presidente Jovenel Moise, con le relative conseguenze politiche e sociali.
La presenza delle tre missionarie nella diocesi di Port-de-Paix è in linea con il contesto in cui si trovano: sono pienamente inserite nella parrocchia locale, ma non hanno nessun tipo di opere proprie da gestire; la loro missione è quella di vivere costantemente a fianco della gente e agire nella comunità testimoniando la carica profetica della semplicità.
Dal loro arrivo nell’aprile 2012, le suore hanno proceduto «tipà, tipà», cioè, in creolo haitiano, «a piccoli passi». E’ questo, infatti, il modo con cui è nata, si è inserita e continua ad operare nella realtà locale di Môle Saint Nicolas, nell’estremo Nord-Ovest del Paese, la comunità missionaria.
Suor Gabriella Orsi, della congregazione delle Serve di Gesù Cristo, è l’unica religiosa che si trova tuttora ad Haiti dall’inizio di quest’avventura: le altre si sono avvicendate con il passare degli anni.
E’ lei a descrivere con la forza della delicatezza lo stile che ha caratterizzato l’identità della missione intercongregazionale:
«La nostra – spiega – è una comunità di presenza. Non abbiamo opere proprie, ma offriamo il nostro servizio con la vita di ogni giorno. Ci siamo inserite pian piano nei diversi gruppi parrocchiali cercando di approfondire la conoscenza e di imparare la lingua.
D’accordo con il parroco, abbiamo cominciato a visitare le famiglie con attenzione alle persone più povere e bisognose: anziani, disabili, ecc. Siamo presenti anche nella scuola elementare parrocchiale per la catechesi. Conoscendo sempre meglio la realtà, abbiamo avviato alcuni progetti: mensa scolastica, alfabetizzazione, recupero alunni in difficoltà, scuola di taglio e cucito».
La popolazione aspira ad una vita migliore, ma lotta ogni giorno per assicurarsi il minimo indispensabile per sopravvivere, senza perdere la speranza.
«Una cosa che ho notato fin dagli inizi è la capacità di tenere presente Dio nella propria vita: anche il semplice saluto è sempre accompagnato dall’espressione in creolo “si Bondye vle” (cioè “se il Signore vuole”).
Inoltre la preghiera di tutti inizia sempre con un ringraziamento al Signore, qualsiasi situazione o circostanza stiano vivendo: uno è ammalato, ma prima di pregare ringrazia il Signore per il dono della vita; e questo non è da poco».
Anche nei momenti di prova come inondazioni, epidemie o problemi inerenti alla povertà, «non ho mai sentito imprecare il Signore o lamentarsi con Lui.
Piuttosto dicono: “Bondye konnen” (cioè “il Signore conosce”), ovvero il Signore sa il perché e sicuramente interverrà. Questi sono i momenti in cui dico a me stessa: qui c’è qualcuno che li sostiene, che dà loro forza; qui c’è il Signore».
(L’articolo è stato pubblicato sul quotidiano Avvenire di sabato 2 ottobre)