«Nessuno immaginava una tale mobilitazione di massa in Venenzuela, il 23 gennaio scorso, dobbiamo prenderne atto: è un dato di fatto importante. Per noi questo è un momento di svolta, ci sono speranze per il popolo venezuelano che vuole un cambiamento politico reale ed è stanco di anni di anarchia».
A dirlo, contattato da noi al telefono è monsignor Jonny Eduardo Reyes, vescovo di Puerto Ayacucho in Venezuela, che ha commentato così l’esito delle manifestazioni di piazza che hanno portato il leader dell’opposizione Juan Guaidò ad assumere l’interim alla presidenza.
Il salesiano ci spiega che non si è trattato di una “autoproclamazione” alla presidenza da parte di Guaidò, ma del fatto che «nella Costituzione è stabilito che il presidente dell’Assemblea nazionale possa prendere il comando del Paese in modo temporaneo» di fronte ad una situazione di grave emergenza. E nel caso del Venezuela di Maduro, insiste monsignor Reyes, l’emergenza è così lampante da non lasciar dubbi.
«E’ necessario andare oltre le visioni ideologiche – avverte il prelato – poiché si tratta di affrontare una transizione in vista di nuove elezioni».
La pressione della comunità internazionale, soprattutto dell’Unione europea che ha lanciato un ultimatum di sette giorni a Maduro affinchè prenda atto della realtà e indica nuove elezioni, è «importante».
«Ci rendiamo conto che ci sono dei tempi tecnici, e infatti noi li rispettiamo, ma poter andare al voto è quello che chiediamo», ha detto ancora il vescovo. Infine, un invito ad andare oltre le categorie della guerra fredda: «Non ci interessano le interpretazioni ideologiche – dice Reyes – a noi interessa il nostro Paese e la salvezza della gente, che finora muore di stenti, anche se un 15% della popolazione sta con Maduro non si tratta di altro che del suo entourage».
La crisi politica venezuelana si va ad aggiungere ad una grave svalutazione monetaria e ad una inflazione alle stelle che hanno reso carta straccia il bolivar, la moneta locale che ad oggi vale 0,014 euro. L’incapacità di Maduro di affrontare il tracollo economico e ancor prima di ammettere l’esistenza di un disagio sociale enorme, che ha precipitato la popolazione nella povertà, hanno peggiorato le cose negli ultimi tre anni.
Basti pensare che lo stipendio di un operaio corrisponde oggi a circa un euro e 50 centesimi al mese, mentre una bottiglia d’acqua costa l’equivalente di 5 centesimi di euro; inoltre gli alimenti vengono rivenduti sul mercato nero, nei negozi non si trova più nulla e gli effetti sono simili a quelli di una devastante guerra civile.
Come ci spiegava anche monsignor Pablo Gonzalez, vescovo di Guasdalito, che abbiamo incontrato in Italia qualche tempo fa:
«Il governo stabilisce un prezzo fisso e calmierato ad esempio per la carne, ma chi la compra non lo fa per rivenderla in Venezuela ma per portarla in Colombia, dove ci guadagna di più. Moltissimi prodotti alimentari che circolano in Colombia vengono dal Venezuela e fanno parte dei cosiddetti “pacchetti” che il governo riserva a prezzi bassi per il mercato interno».
Il mercato nero, la speculazione e il proliferare di attività economiche illegali, soprattutto al confine, «sono oggi il business di chi rimane in Venezuela e per sopravvivere non può fare altro», aggiungeva monsignor Gonzalez.
Secondo i vescovi l’aiuto finanziario dall’estero in questa fase serve, ma non è la chiave per uscire dal baratro: i vescovi sanno bene che il problema è politico e che finché Maduro resterà al potere il Venezuela non potrà uscire dalla sua trappola.