Vaticano-Cina: croci, campanili e bandiere rosse

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Relazioni delicate quelle che intercorrono tra la Repubblica Popolare Cinese e il Vaticano. E se ufficialmente è in atto un processo di distensione, resta il problema della “sinizzazione”, ovvero del progetto politico nazionalista di Xi Jinping.

Poteva rappresentare uno strappo doloroso nei rapporti tra Cina e Santa Sede quello compiuto il 4 aprile scorso dalle autorità cinesi con il trasferimento del vescovo Giuseppe Shen Bin dalla diocesi di Haimen (Jiangsu) a quella di Shanghai.

Ma a più di 100 giorni da quell’atto unilaterale, papa Francesco ha deciso di sanare la situazione accettando la nomina del giovane vescovo.

A spiegare la decisione del Santo Padre (apparentemente un atto di debolezza nei confronti della autorità cinesi) è stato il Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, che, in un’intervista ai media vaticani, ha chiarito che «Papa Francesco ha comunque deciso di sanare l’irregolarità canonica creatasi a Shanghai, in vista del maggior bene della diocesi e del fruttuoso esercizio del ministero pastorale del vescovo».

Relazioni ancora molto delicate, quindi, quelle che intercorrono tra la Repubblica Popolare Cinese e il Vaticano, e che, aldilà delle parole di circostanza, fanno domandare a molti se la Santa Sede creda ancora nel dialogo con Pechino.

«Io credo di si – spiega padre Gianni Criveller, direttore del PIME di Milano e profondo conoscitore degli affari cinesi -.

Anzi, si può mettere in rilievo come nelle parole del papa non ci sia mai stata una lamentela contro la politica religiosa della Cina.

Qualche anno fa, in un’intervista ad una radio spagnola, aveva ammesso, tuttavia, che l’accordo non stava andando come tanti speravano.

Papa Francesco assicura comunque che il dialogo deve andare avanti, mentre la Segreteria di Stato ha fatto capire che c’è qualcosa che deve cambiare nel comportamento delle autorità cinesi».

Nodo del contendere le modalità della nomina dei vescovi previste dall’accordo firmato nel 2018, rinnovato nel 2020 e nel 2022, e che ruota attorno al principio della “consensualità” delle decisioni che riguardano i vescovi.

«Questo accordo è segreto – spiega padre Gianni – nel senso che non conosciamo il testo, e cioè il meccanismo attraverso il quale si giunge alla nomina dei vescovi.

Per la prima volta, in maniera ufficiale, è il papa che nomina i vescovi in Cina.

Questo è il grande risultato degli accordi del 2018: la Cina riconosce che i vescovi siano nominati dal pontefice.

Tuttavia occorre dire che se il papa nomina i vescovi, non significa che li scelga anche.

Secondo me la procedura non è molto diversa da quella che c’era prima dell’accordo, ovvero la partecipazione delle autorità politiche nella selezione dei candidati.

Credo che al papa arrivi un solo nome, non tre come succede di solito».

Altre questioni delicate nei rapporti tra Cina e Vaticano sono quelle inerenti alla Conferenza Episcopale Cinese – da un punto di vista canonico illegittima perché non è stata costituita dal Vaticano e non include tutti i vescovi cinesi, ma solo quello riconosciuti dal governo -; le comunicazioni dei vescovi cinesi con il papa; il tema dell’evangelizzazione.

Libertà religiosa o tolleranza?

«Secondo i documenti governativi, in Cina c’è la libertà di fede religiosa, non la libertà religiosa.

Chiunque può credere in una religione (a meno che non sia membro del Partito comunista), ma non quella di praticarla in pubblico, se non nei rispettivi luoghi di culto.

Tra l’altro le religioni riconosciute dal governo sono solo cinque, il buddhismo, il taoismo, l’islam, il cattolicesimo e il protestantesimo, le ultime due considerate due religioni diverse».

E tutte sotto un potente controllo delle autorità: l’Amministrazione Statale per gli Affari Religiosi-SARA – e il dipartimento del Fronte Unito del Partito Comunista, che, nel caso della Chiesa Cattolica, si inserisce nella vita ecclesiale attraverso l’Associazione Patriottica dei Cattolici Cinesi.

Testimonianze che arrivano dalla Cina parlano di croci sui campanili abbattute e sostituite con le bandiere rosse nazionali, di esposizione di slogan politici e frasi che esaltano il partito sulle facciate delle chiese, dell’eliminazione di immagini sacre e quadri a soggetto religioso.

«Episodi di questo genere sono veri, le croci sono state per davvero tolte già da alcuni anni a partire dalla città di Wenzhou, ma questo non vuol dire che in tutti i posti, in tutte le chiese, ci sia questa situazione.

I minori non possono andare in chiesa né ricevere l’istruzione religiosa e questo è legge.

In moltissimi posti viene applicata, persino con severità, soprattutto nelle città. In altre circostanze no.

Nelle campagne e nelle province meno soggette ad un controllo rigoroso, ci sono ragazzi e bambini che vanno a messa la domenica».

In ogni caso, sottolinea padre Criveller, non si tratta di persecuzione nel senso tradizionale del termine.

«Ci sono tuttavia una ventina di leader cattolici che sono o agli arresti domiciliari o confinati nei loro villaggi, compresi dei vescovi di cui si hanno scarse notizie.

Sono puniti perché si sottraggono alle imposizioni della politica religiosa».

Il futuro si profila, comunque, alquanto incerto. Una grande difficoltà è la cosiddetta “sinizzazione”, e cioè il progetto politico nazionalista di Xi Jinping.

Tutto quello che succede in Cina deve «adattarsi alla società socialista» ed avere «caratteristiche cinesi».

Le religioni, come ogni altra forma di pensiero, devono sottomettersi alla politica imposta dal Partito, sempre più unico agente ideologico a dominare la vita sociale e culturale del Paese.

Ne sanno qualcosa i buddisti tibetani o la popolazione islamica degli Uiguri, internati a migliaia nei campi di rieducazione per essere rieducati all’amore per il partito.