Incrociai per la prima volta lo sguardo di monsignor Adriano Tomasi qualche anno fa, proprio tra le sue montagne in provincia di Trento. Era in un momento di vacanza e di riposo dalla sua impegnativa missione che si svolge prevalentemente nella città di Lima. I suoi quasi 80 anni sono supportati dalla spiritualità francescana: frate minore e prete dal 1964, dopo gli studi classici in conventi trentini e la teologia a Roma. Nel suo cuore, fin da giovane, ha sempre abitato il desiderio di essere missionario, soprattutto in Asia. Entusiasta della storia francescana che si è dispiegata negli anni, particolarmente in Cina, ha fatto richiesta all’Ordine dando piena disponibilità per questa meta. Tutto sommato il Signore l’ha ascoltato, e lui si è adattato a un invito particolare.
La prima domanda di impegno apostolico avviene nel bel mezzo del Concilio Vaticano II, grazie all’incontro con monsignor Ferruccio Ceol. È una richiesta particolare che viene dalla missione dei frati minori in Perù, per la numerosa comunità cinese. Un sogno che si realizza con la partenza, prima per Hong Kong, dove è impegnato per lo studio e per l’apprendimento della lingua fino al 1968, e poi a Lima per l’apostolato alla comunità cinese. Monsignor Tomasi, di se stesso, dice: «Sono in Perù da 51 anni, e sono venuto dalla Cina per aiutare i cinesi nel lavoro pastorale. Vivo in una grande struttura scolastica, sono in mezzo ai giovani e la loro vivacità mi contagia. Questo collegio è dedicato a papa Giovanni XXIII, perché è stato il primo che ci aiutato nel periodo di fondazione. Da 16 anni sono vescovo ausiliare di Lima, coadiuvando il cardinale Cipriani. Sono molto impegnato nella carità della diocesi, nelle iniziative che si svolgono nella pastorale dell’educazione sanitaria, carceraria e di recupero dalla tossicodipendenza».
Una carità che si fa casa
Raggiungo con lui il Cerro di San Cristobal, una collina con al centro una grande croce, meta quotidiana di molti fedeli, ma anche di tanti turisti, poiché è un punto privilegiato per osservare questa megalopoli. Lima ha 10 milioni di abitanti, l’arcidiocesi ne conta complessivamente quattro milioni, suddivisa in 120 parrocchie. Il numero dei presbiteri è da sempre insufficiente e l’impegno più importante ad oggi è la formazione e la preparazione dei laici, affinché ogni comunità sia ben animata e vivace. Padre Pachi, come viene simpaticamente chiamato monsignor Tomasi quando si trova ad operare tra le sue innumerevoli comunità e servizi, ci introduce in alcuni singolari, simbolici e significativi luoghi dove la carità è l’anima di qualsiasi corpo ferito, prostrato, abbandonato, rifiutato. Visitiamo la Casa della carità della diocesi, dove gli “ammalati poveri” provengono da tutte le province del Paese e l’anno scorso sono stati ben 1.816. Quando bussano qui significa che per loro non c’era alcun posto dove poter stazionare in attesa di una visita specialistica, di un intervento particolare, sperando nella possibilità di una cura efficace e possibile, come la chemio o la radio terapia. Le suore della Congregazione di San Camillo degli Infermi – sull’esempio della loro fondatrice, la beata Barbantini di Lucca, che andava per le strade a cercare gli ammalati e i poveri con una lampada – da un decennio vivono qui il Vangelo della carità. «Sopra la porta c’è una lanterna sempre accesa 24 ore su 24. Significa – racconta suor Ivana, brasiliana – che qui c’è sempre posto: la nostra missione è dare collocamento, alimentazione e attenzione integrale a tutta la persona. Dare ascolto e amore, come diciamo noi “con mucho cariño”. E poi ci impegniamo a visitarli nei grandi ospedali di Lima, perché questi ammalati sono arrivati qui soli e non conoscono nessuno. La casa vive di Provvidenza, che ci sostiene quotidianamente. Assistiamo 70 ammalati al giorno, con 180 nuovi ingressi al mese».
Un cuore aperto a tutti
Riprendiamo le vie meno conosciute della periferia e siamo ospiti per alcune ore del Lugar Gladis, una casa che accoglie le ragazze incinte e in pericolo. Gladis è il nome di una magnifica donna sposata, che nella sua vita iniziò a raccogliere per strada bambine e ragazze vittime di violenza, in attesa di un figlio. La diocesi ha raccolto questa importante eredità e continua ad aprire il cuore soprattutto a chi è in pericolo e vittima di violenze domestiche. «Qui le ragazze trovano una casa accogliente che si prende cura di loro con riservatezza e senza giudizio, accompagnandole con serenità e proteggendo dalla violenza il loro bimbo che sta nascendo» ci confida monsignor Adriano.
Insieme ci spostiamo verso un barrio popoloso della grande metropoli. Qui incontro padre Arturo, parroco di Santa Sofia Barar, nel distretto di Sant’Agostino, un territorio che comprende circa 40mila persone. Qui si celebra ogni domenica la messa con grande partecipazione, al termine della quale si offre la colazione. «Ogni domenica – spiega il parroco, padre Arturo – offriamo il desayuno a tutti gli anziani presenti. Viene servito dai vari gruppi di laici che animano la comunità. L’amore di Dio appena celebrato viene messo subito in pratica, qui non c’è prenotazione o pagamento per questo servizio. La Provvidenza lungo la settimana non è mai mancata all’appuntamento e noi ci fidiamo».
Queste sono solo alcune realtà, ma altamente significative presenti nell’arcidiocesi, nascoste tra le case, ma come lievito leggero fanno crescere tutta la Chiesa. Sono nate per curare le ferite e i silenzi, luoghi alimentati dalla Provvidenza per custodire la “riabilitazione” di persone sfregiate dall’odio e dall’indifferenza.
I gesti e le parole di papa Francesco
All’indomani della visita di papa Francesco, chiediamo a monsignor Tomasi le sue impressioni: «La visita del papa ci ha molto impegnato, ma ne è valsa la pena, perché papa Francesco in ognuno dei luoghi che ha visitato ha annunciato la speranza richiamandoci con toni forti a non lasciarcela rubare da nessuno, denunciando qualsiasi male che possa farci allontanare da essa». Un viaggio di soli quattro giorni, con incontri popolari e semplici, parole che sono andate dritte al cuore dei problemi, un viaggio che lascerà il segno. «Il momento più toccante – racconta padre Pachi – è stato nella città di Puerto Maldonado, nella selva amazzonica, davanti a diverse tribù e a migliaia di persone che vivono in questa grande area. Il papa ci ha ricordato che quella terra non dev’essere considerata terra di nessuno, perché si chiama Madre de Dios, e un popolo e una terra che hanno una madre, non sono mai orfani. Tutti dobbiamo lottare, perché non si taglino gli alberi in una forma selvaggia, distruggendo la selva con la sua ricca flora e fauna; ci si deve ribellare all’estrazione illegale dell’oro, poiché usando il mercurio e gli acidi si contaminano fiumi e, facendo morire i pesci, si lasciano senza cibo le tribù. Così pure è inaccettabile che l’estrazione del petrolio contamini le foreste, solo per uno scambio del denaro che corrompe; ma soprattutto, non si può tollerare la “tratta” delle persone, specialmente delle donne, perché è una schiavitù alla quale tutti ci dobbiamo ribellare. Davanti alle autorità ha richiamato con forza che la corruzione distrugge la democrazia e colpisce, come sempre, specialmente i più poveri».
L’ultimo ricordo che monsignor Tomasi ci confida è la preghiera filiale fatta davanti alle reliquie dei cinque santi peruviani che vissero a cavallo del XVI e del XVII secolo: santa Rosa, san Martín de Porres, san Juan Masías, san Francesco Solano e santo Toribio de Mogrovejo. «È stato un momento intensissimo e di alta spiritualità che ha fatto bene a tutti noi. E sono convinto che i giorni vissuti con papa Francesco cambieranno molti cuori e un poco anche la vita del nostro Paese. Con lui abbiamo terminato cantando insieme “Uniti per la Speranza”. Con questo canto il Perù ha affermato la sua cattolicità e si è impegnato, nonostante le difficoltà, per un futuro migliore, di fratellanza e di pace».