Un seminarista in missione, per essere più cristiano, uomo, prete

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Si chiama Michele Sentina, è diacono seminarista di Caltagirone ed è il primo che ha usufruito della nuova Convenzione Giovani messa a punto dalla Conferenza episcopale italiana per laici fino all’età di 35 anni che vogliono fare un’esperienza di formazione e di servizio missionario.

Michele è partito il 28 settembre dello scorso anno per un periodo di sei mesi: d’accordo con il suo vescovo e con il Centro missionario diocesano di Bergamo, si è appoggiato alle realtà missionarie bergamasche presenti in Bolivia ed ha trascorso qui la sua esperienza formativa, perfettamente inserita nel cammino verso il sacerdozio che sta intraprendendo.

Arrivato nel Paese latinoamericano è stato accolto a Cochabamba, città nel centro della Bolivia, da don Basilio Bonaldi, missionario bergamasco di lungo corso, che gli ha proposto di visitare le varie realtà missionarie che in tanti anni i preti della diocesi lombarda hanno fondato.

Sin da subito, il seminarista ha compreso che questo viaggio lo avrebbe aiutato a diventare prete per il mondo.

Effettivamente partire per la missione è un’esperienza che aiuta ad essere più uomo e più cristiano, ma forse anche più prete, stando alla sua testimonianza.

Michele ha trascorso i primi due mesi a Cochabamba dove ha fatto servizio nel doposcuola gestito dai missionari bergamaschi per dare l’opportunità ai bambini più disagiati di studiare e formarsi. Successivamente, a Santa Cruz, ha fatto l’esperienza di servizio nel carcere minorile Fortaleza.

Poi in una parrocchia di La Paz ha seguito le attività estive dei ragazzi.

E infine con il vescovo di Pando, monsignor Eugenio Coter, è stato nell’Amazzonia boliviana, dove ha celebrato la liturgia della Parola nelle comunità disperse in foresta, che non ricevevano l’eucarestia da tantissimo tempo a causa della vastità dell’area e delle difficoltà per raggiungere ogni angolo dell’Amazzonia.

«L’esperienza missionaria – spiega Michele – era un qualcosa che da sempre volevo fare, soprattutto in virtù della vocazione che Dio ha posto nella mia vita.

L’ho sempre ritenuta indispensabile per sperimentare ascolto, vicinanza, preghiera, ma anche per rendermi conto di un mondo completamente altro, al di fuori del mio ambiente quotidiano».

Quest’esperienza, che Michele ha inserito nel suo cammino di formazione verso il sacerdozio, «mi ha riportato, non tanto con i piedi per terra, ma con la faccia per terra – confessa – perché là ascolti sofferenze che qui non siamo abituati a sentire.

Sono partito con entusiasmo e gioia, per salvare il mondo, ma in quelle terre sei da solo, inserito in una cultura sconosciuta e all’inizio sperimenti una profonda solitudine: arrivi là e non salvi nessuno, anzi, sono loro che salvano te, che danno senso al perché sei lì».

Esperienze forti in cui sperimenti che non sai cosa fare né dire, esperienze che ti lasciano stimoli per ripensare alla fede, ai modi con cui stare con la gente.

«Mi porto questa ricchezza: io non ricordo quello che ho donato in Bolivia, mi ricordo quello che ho ricevuto».

Per fare un esempio dell’asimmetria tra il dare e il ricevere, racconta di quando è arrivato nelle comunità amazzoniche:

«Ero sulla moto con il responsabile della pastorale sociale: dopo tre ore di viaggio nella foresta, siamo giunti in un luogo con alcune baracche e una chiesetta in lamiera.

Fuori non c’era nessuno.

Quando hanno sentito la moto fermarsi, sono usciti tutti dalle loro casupole.

E quando hanno visto che in mano avevo qualcosa di prezioso che stavo proteggendo e maneggiando con cura – era la teca con le ostie consacrate – subito sono entrati nelle case e sono usciti con cibi e bevande, per fare festa.

Tanto che io non ero sicuro che avessero capito che dovevamo fare la liturgia della Parola. Ma questa gente non stava facendo festa a noi: la stava facendo a Gesù Cristo.

Perché da due anni non vedeva l’eucarestia!». Il modo con cui quelle persone hanno reagito alla possibilità di celebrare è stato unico: «Addirittura, alcuni uomini che erano a lavorare sono tornati proprio per la liturgia.

Questo fa capire quanta voglia e quanto desiderio di Dio ci siano in queste comunità. E noi ci lamentiamo per gli orari delle messe», conclude il seminarista.

Durante i sei mesi in Bolivia, nella mente e nell’animo di Michele sono risuonate tante riflessioni.

Quella che custodisce con più cura è legata al senso di impotenza che a volte si sperimenta: nonostante tutto l’impegno e gli sforzi di anni e anni di missione, spesso «i tuoi occhi non percepiscono miglioramenti, perché la tua azione non cancella la violenza che c’è in giro.

E quando scopri che il cambiamento non dipende da te, ti senti inutile.

Ma è in questa contraddizione che c’è il senso della missione, la cui azione non è in quello che dai, ma in quello che testimoni. Occorre saper accettare la propria impotenza.

Capirlo e riconoscerlo è bello, perché impari ad ascoltare di più, a pregare di più, a guardare tutto con altri occhi».