La regione del Karamoja, nel nord-est dell’Uganda è classificata dalla Fao come una delle più povere al mondo: 1,2 milioni di abitanti, il 61% dei quali sotto la soglia di povertà. Le ragazzine a 15 anni hanno più di un figlio e la media per ogni mamma è di otto bambini a testa.
«Sono talmente povere che vengono convinte ad affidare i loro figli a dei compaesani in cambio di pochi spiccioli al mese», racconta suor Fernanda Cristinelli, 58 anni, 32 dei quali vissuti da comboniana in Africa.
Ma quello che le mamme non sanno è che i loro figli finiranno in una rete di trafficanti di esseri umani con destinazione Kampala. Qui li aspetta l’accattonaggio in strada, vestiti di niente; ma anche l’abuso sessuale per le femmine, e la sopravvivenza a pane e acqua in uno slum, dove, con l’arrivo della pandemia, le cose sono ulteriormente peggiorate.
«Le bambine tra i 10 e i 15 anni vengono ammassate in una struttura di lamiera dove dormono anche in 30 o in 40 – racconta la missionaria che fa ogni mese la spola da Moroto, nel Karamoja, fino alla capitale, dove ha avviato un progetto destinato ai bambini trafficati – e la mattina dopo prendono la via del mercato, a pulire fagioli e noccioline».
Fernanda è una delle super nuns, della rete internazionale Talitha Kum, che cercano di sottrarre donne e bambini al traffico di esseri umani. E lo fa a piccoli passi, tessendo una trama di relazioni e awareness, dice lei in inglese, consapevolezza, tra le comunità della zona di partenza (il Karamoja) e quella di destinazione (Kampala).
Perché questo traffico è frutto di una rete criminale di persone tra le quali rientrano perfino le famiglie dei bambini venduti. Quel che è peggio, dice la missionaria, è che tutto avviene “sotto lo sguardo praticamente connivente del governo ugandese, che sa bene chi sono i trafficanti e da almeno dieci anni assiste al racket dei bambini”. Per fortuna da un anno e mezzo i bimbi di strada Karamojon hanno un centro diurno dove trascorrere alcune ore della loro giornata.
Si chiama St Daniel Comboni children Center, è stato aperto a marzo del 2019 con dei fondi della Cei e di Usaid, ma i finanziamenti stanno finendo e bisogna cercare altre fonti di finanziamento.
«Qui possono giocare, mangiare e soprattutto essere seguiti con amore – dice Fernanda – In un anno e mezzo sono passati da noi 200 bambini, è stato un puzzle voluto dal Signore».
C’è uno staff, oltre alle suore e una counselor che cerca di accompagnare le ragazzine abusate sessualmente. Per la piccola Lotukei, 4 anni, figlia di Mary, donna alcolizzata, usata dai trafficanti come mediatore, c’è stato forse un lieto fine: è stata affidata ad una famiglia del Karamoja che si prenderà cura di lei. Per sua mamma però, è ancora la strada il destino.
Per le madri di questi bambini le comboniane hanno avviato un progetto di recupero, uno women desk, così lo chiamano, dove poter sensibilizzare le donne sulle conseguenze di ogni singola azione. «Ho cercato di capire il fenomeno e da lì abbiamo cominciato», dice la suora.
E pensare che la regione del Karamoja non è affatto povera dal punto di vista geologico, eppure rimane tra le più emarginate dell’Uganda.
Qui di recente sono stati scoperti altri giacimenti di minerali industriali, cave di marmo e quarzo. Sfruttati dalle compagnie straniere e rivenduti sulle piazze estere.
(Articolo pubblicato sul quotidiano Avvenire domenica 18 Ottobre).