Il terrorismo di matrice jihadista continua a mietere vittime in Africa orientale, non risparmiando neanche l’Uganda, vittima di recenti attacchi nella capitale.
Tuttavia secondo fonti missionarie che abbiamo ascoltato a qualche giorno di distanza dall’attacco del 16 novembre a Kampala, (tre persone sono state uccise e una trentina sono rimaste ferite), si tratta di «attentati che non hanno strettamente a che fare con la religione».
Quanto piuttosto con la gestione del potere politico e la destabilizzazione dell’area.
L’Uganda è un Paese a prevalenza cristiana (oltre l’80% della popolazione pratica la religione cristiana), l’Islam rappresenta meno del 14% della popolazione: «viviamo in un paese libero dal punto di vista confessionale -spiega la fonte – dove non ci sono mai stati problemi di conflittualità con i musulmani».
E ancora: «L’Uganda è aperta a tutti, c’è una mutua fraternità: ognuno rispetta gli altri e c’è una completa libertà di professare la propria fede».
La violenza non sembra correlata dunque nè ad una deliberata persecuzione nei confronti dei cristiani, nè ad una presenza strutturata di gruppi islamici, quanto piuttosto ad un disegno più vasto che vede il terrorismo di matrice jihadista penetrare sempre di più in territorio orientale.
La duplice esplosione di martedì scorso è avvenuta in luoghi chiave della vita politica e amministrativa del Paese: la prima deflagrazione accanto ad una stazione di polizia, l’altra vicino al palazzo del Parlamento. Un terzo target è stato mancato.
La polizia lo ha descritto come «un attacco coordinato, da parte di gruppi ‘radicalizzati’».
Secondo il giornale on-line The Conversation, sarebbero due gli “hotspot” legati al terrorismo jihadista nell’Africa dell’Est: il primo è in Somalia, dove si «sperimenta una instabilità continua dal 1991» ad opera di Al-Shabab. I terroristi vengono reclutati tra le comunità marginalizzate del Kenya e anche tramite Uganda, Tanzania e Djibouti.
Il secondo hotpost è localizzato nell’est della Repubblica democratica del Congo, ossia nel Nord Kivu. Qui esiste una vera e propria “zona franca” di frontiera, controllata pochissimo se non per nulla dall’esercito governativo, e dove gruppi armati (almeno 114 milizie) infiltrati da Uganda e Ruanda si spartiscono il territorio.
Proprio in questa zona è avvenuto l’agguato all’ambasciatore italiano Luca Attanasio e alla sua scorta. Con l’uccisione anche dell’autista Mustapha Milango e del carabiniere Vittorio Iacovacci.
L’Uganda in qualche modo si colloca in quest’area di frontiera ed è fortemente condizionata dal terrorismo: «le cause profonde degli attacchi terroristici – spiega il ricercatore Anneli Botha a The Conversation – hanno un’origine interna, diversa per ciascuno Stato. Non c’è un singolo profilo o una sola ragione. Si tratta di una combinazione di cause: politiche, sociali ed economiche».
Di certo, ciò che accomuna il terrorismo è la facilità di reclutamento della manovalanza: «la gente si sente esclusa quando lo sviluppo in quella parte del Paese nella quale vivono è trascurato»
Non è facile in Uganda «sopravvivere, avere un lavoro, guadagnare – spiega anche la nostra fonte missionaria – pertanto io credo che sia sempre più frequente per questi gruppi che destabilizzano l’area, trovare manovalanza disposta ad uccidere».
Ancora una volta povertà, mancanza di istruzione e valide alternative occupazionali generano precarietà, insoddisfazione, mancanza di alternative. E il jihadismo affonda lì le sue radici.