I turisti sono coloro che accedono e assumono la mobilità come diritto assoluto e non negoziabile. Viaggiare, conoscere e far esperienza di spaesamento sapendo di tornare al luogo di partenza. A loro appartiene il mondo: il mare, le montagne, le spiagge, le città, le viste panoramiche, i colori e i sapori di una lingua differente. Sono tra i padroni del mondo.
Nessuno si sognerebbe di metterli in centri di identificazione o in piattaforme di sbarco onde verificare i motivi reali del viaggio prima della partenza.
Eppure i paesi al sud della Libia ne avrebbero il sacrosanto diritto. Si potrebbe trattare di onesti cercatori di novità, di nullafacenti in cerca di brividi o di sinistri cacciatori di frodo. Difficile saperlo prima senza dare opportune garanzie.
Meglio sarebbe provvedere ad una selezione tra i turisti degni di essere ospitati e quelli da rifiutare per evidenti motivi. Ci sarebbe allora un turismo scelto e scevro da futili aspirazioni che non incontrano i bisogni delle popolazioni locali. A dirigere i campi di filtraggio operatori scelti del SUD.
I testimoni di sabbia arrivano da lontano. Buttano via i documenti per imbrogliare le frontiere e inventarsi un nome di circostanza. Non sanno nuotare perché la storia si fa coi piedi. Arrivano con un silenzio e con un grido.
Il silenzio è quello di coloro che non arrivano mai. Si sono fermati prima del tempo e di loro rimangono nomi non scritti e lettere nascoste ancora da spedire. Un silenzio assordante che si portano dentro come in uno scrigno di cui hanno smarrito la chiave.
Un silenzio di silenzi che il dolore e i tradimenti hanno reso indicibile e indecifrabile. Arrivano col silenzio sottobraccio che li accompagnerà per tutto il tempo del soggiorno.
Lo custodiranno come un segreto da non rivelare a nessuno che prima non impari a tacere. E poi arrivano, i testimoni di sabbia, con un grido.
Non è un grido di vittoria e neppure un grido di vendetta. Non è il grido del guerriero e neppure quello dettato dalla paura. Arrivano con l’unico grido che ancora rimane al mondo per salvarsi. E’ il grido di coloro che non vogliono scomparire senza prima vivere.
E’proprio così il grido di Narley che parte con una borsa di plastica colma di vestiti usati. Il suo era un pianto perché, dopo anni di lavoro in Algeria, è stata arrestata, deportata e abbandonata nel deserto col solo vestito che portava addosso in strada. Provava vergogna a tornare a casa con l’abito che le ricordava l’inferno dell’espulsione.
Ha scelto con calma e pudore i vestiti più belli da indossare per il ritorno al paese che ha lasciato nel 2013. L’attendono in Liberia due figli e la madre che li ha nel frattempo custoditi. Indosserà il vestito che tutti dovrebbero portare, quello della dignità.
Mauro Armanino, Niamey, luglio 2018