Ieri a Khartoum nuove manifestazioni di piazza per dire no ai militari, chiedere un governo composto da civili, e proseguire la transizione verso la democrazia. La gente è pronta a morire per la libertà negata dal golpe del 25 ottobre scorso.
Ieri è stata arrestata anche l’attivista Amira Osman, prelevata da casa sua a Khartoum: ogni volta che il popolo sudanese ha provato in questi mesi a manifestare pacificamente il suo dissenso, si sono verificati nuovi eccidi in strada. In tutto circa 70 persone hanno perso la vita.
Proprio la violenza dell’esercito e l’impossibilità di fermare i massacri, hanno spinto lo scorso 2 gennaio il premier depotenziato Abdalla Hamdok a gettare la spugna: dopo mesi di negoziati falliti e un tentativo mai andato in porto di formare un nuovo governo, Hamdok ha rassegnato le dimissioni.
Segno che non ci sono margini nel Paese per procedere ulteriormente lungo la strada della “condivisione del potere” con i militari. Per settimane la gente ha protestato e non si è lasciata intimorire dalle minacce.
«Tanti, tantissimi oggi in marcia verso il palazzo presidenziale, a pochi metri da casa. Quando sembrava che avesse prevalso la real politik degli accordi di palazzo, la gente invece si è fatta sentire.
Lacrimogeni tanti, tanti. Qualcuno è caduto anche nel cortile della nostra chiesa, ma noi stiamo tutti benone», ci raccontava nelle settimane scorse una nostra fonte della Chiesa cattolica a Khartoum.
Nel discorso pubblico tenuto poco prima di dimettersi, Hamdok aveva detto: «Ho cercato in ogni modo di evitare che il nostro Paese precipitasse nel baratro.
Ora ci avviciniamo ad un pericoloso punto di svolta che potrebbe minacciare la sua sopravvivenza se non urgentemente rettificato».
Il riferimento è chiaramente al confronto sempre più serrato e ìmpari (la barbarie dei militari è un dato di fatto e tra le vittime molte sono donne) tra esercito e civili.
«Nella notte tra il due e il tre gennaio il primo ministro si è dimesso. Si è trattato di un passo inevitabile, ma verso dove? Siamo al bivio fra dittatura militare e anarchia totale?».
Si chiede una nostra fonte legata alla Chiesa cattolica a Khartoum.
Dubbi ed incertezze sul futuro vacillante del Sudan assalgono tutti i cittadini, non solo quelli della capitale, che nonostante ciò però continuano a lottare per non essere sopraffatti.
«Purtroppo – dice una fonte missionaria – la società civile che ha adottato lo slogan “niente negoziazioni” sembra non avere proposte da mettere sul tavolo.
Anche perchè la piattaforma è molto divisa al suo interno ed annuncia per gennaio altre sei date di protesta».
In realtà il niet circa una mediazione con i militari non arriva solo dalla gente comune: lo stesso Hamdok, pure armato di buona volontà (nonostante sia rimasto per settimane agli arresti nella residenza del generale Bhuran) non è riuscito a negoziare con i golpisti.
È probabile che la contropartita politica fosse troppo svantaggiosa per lui e per i ministri della compagine civile, e che comunque la brutalità dell’esercito lo abbia frenato dal cercare un compromesso ad ogni costo.
Nelle ultime settimane circolava il nome di Ibrahim Elbadawi, come possibile nuovo primo ministro: ma gli analisti locali ritengono che sia un politico «troppo onesto» per accettare di far parte di un governo controllato de facto dai militari.
Forte della scelta audace di Hamdok la piattaforma pro-democrazia del Sudan – formata anche da studenti e da professionisti – annuncia una serie di manifestazioni praticamente a giorni alterni.
Chiede rassicurazioni per la propria libertà e incolumità fisica e una transizione ragionevole verso libere elezioni democratiche.
La decisione del premier, annunciata tramite i canali ufficiali televisivi, è giunta ben sei settimane dopo il suo ritorno in carica.
Interessante è il punto di vista di una giornalista italiana, testimone diretta delle atrocità dei generali: Antonella Napoli, africanista, da poco rientrata dal Sudan ed autrice del libro “Il vestito azzurro”, ci racconta cosa prova un popolo soggetto da sempre alla mannaia della dittatura.
«La società civile formata soprattutto da giovani e da moltissime donne, non accetterà mai un compromesso con l’esercito», dice senza ombra di dubbio Napoli, che nel 2019 era a Khartoum per filmare la rivoluzione contro Bashir e venne fermata dalla polizia provando sulla propria pelle il terrore della repressione.
«Anche stavolta la popolazione – spiega – è molto determinata a non mollare, anche perché troppo recente è il ricordo delle atrocità di Omar Al-Bashir. La gente proseguirà indubbiamente la sua protesta finchè non otterrà ciò che chiede».
(Una versione completa di questo pezzo è stata pubblicata sul numero di gennaio di Popoli e Missione. la foto è di Afp, proprietà di Popoli e Missione).