Sudan, padre Salvatore da Port Sudan e la pulizia etnica nel Darfur

Facebooktwitterlinkedinmail

«Essere un operatore umanitario in Sudan, in questo momento, significa fare testamento».

Me lo racconta con parole inequivocabili, al telefono da Port Sudan, un comboniano storico che da questo Paese massacrato non se ne è mai andato.

Lui è padre Salvatore Marrone, da 30 anni in missione in Sudan. Da testimone guarda gli effetti tragici di questa guerra («che sta diventando civile oramai», dice) che prosegue da oltre un anno senza tregua.

«La città dove mi trovo, Port Sudan – racconta  – è relativamente più calma di altre regioni, ma assistiamo da lontano ad una tragedia». 

Nelle zone dove si combatte, «la gente muore di fame, è carne da macello.

Per certi versi la dinamica somiglia a quella di Gaza, chiusa in trappola.

Anche qui sono chiusi dentro: da El Fasher, in Darfur, ad esempio, non si esce mica! Sono chiusi e gli aiuti non arrivano…».

Ecco perchè essere un operatore umanitario che tenta di portare sollievo e beni primari, può costare la vita.

Le analogie con la Palestina non finiscono qui: anche per il Sudan si intravede l’ombra lunga della pulizia etnica che perseguita il Darfur. 

Ad inizio di maggio Human Rights Watch ha denunciato chiaramente i «crimini contro l’umanità» e il «genocidio» dei Masalit in corso nel Darfur.

Sotto accusa sono le Rapid Support Forces, milizie paramilitari che da oltre un anno combattono contro l’esercito regolare, e che hanno una evidente connotazione etnica.

HRW fa riferimento in effetti a numerosi episodi di «pulizia etnica» risalenti al periodo compreso tra novembre ed aprile 2023.

Anche l’International Crisis Group nutre molti dubbi sui metodi utilizzati dai “Diavoli a cavallo”, come si facevano chiamare i ribelli attivi da molti anni nel Darfur.

Gli assalti sotto accusa si sarebbero concentrati nei pressi della città di Geneina, nel Darfur occidentale: i crimini di guerra imputati ai paramilitari sono stati commessi, come si legge nel dossier, nel «contesto di una campagna di pulizia etnica contro i Masalit e altre popolazione non arabe nei pressi della città».

Padre Salvatore racconta uno dei pochi elementi di speranza e di sollievo:

«a Port Sudan stiamo tenendo dei corsi di medicina palliativa per infermiera, per assistere i malati terminali… Sono corsi online e vengono seguiti da tutto il Sudan».

Sebbene nel bel mezzo della guerra civile, i comboniani riescono a ritagliare degli spazi di respiro e di vita che concede ore di speranza alle popolazioni in balia dei due generali rivali.

(Foto di Bertramz – Opera propria, CC BY 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5654739).