El Fasher in queste ore trema e prega.
La principale città del Darfur settentrionale, nel Sudan pesantemente colpito dalla guerra tra milizie armate ed esercito regolare, attende con orrore l’arrivo dei paramilitari.
El Fasher è ancora sotto il controllo dell’esercito ma il suo destino resta molto incerto.
«Noi tutti viviamo nell’assoluto terrore e nella costante preoccupazione di ciò che succederà nei prossimi giorni», racconta alla BBC Osman Mohammed, un insegnante di lingua inglese di 31 anni che vive ad El Fasher.
«Se ci saranno scontri armati tra le Rapid Support Forces e l’esercito, in città, noi civili saremo le prime vittime», aggiunge all’emittente britannica Mohammed Ali Adam Mohamed, venditore ambulante di 36 anni.
Quella che da diversi analisti viene definita “guerra civile”, è in realtà una lotta per il potere tra Generali rivali, iniziata oltre un anno fa, dopo che i due uomini forti del Paese (il generale al-Burhan e l’ex alleato, Mohammed Dagalo) avevano prima realizzato un Colpo di Stato assieme e poi iniziato a combattersi per prevalere uno sull’altro.
Finora il Paese è stato distrutto e dilaniato da un conflitto brutale, che ha ridotto la popolazione soprattutto quella del Darfur, alla fame.
E ha costretto milioni di persone a lasciare il Paese come sfollati nei campi profughi della vicina Etiopia e del Ciad.
Tre giorni fa il World Food Porgramme ha messo in guardia sul fatto che non c’è più tempo per prevenire la carestia e la fame nel Darfur.
«Siamo agli sgoccioli: richiediamo urgentemente un accesso senza restrizioni al Paese e garanzie di sicurezza per portare assistenza alle famiglie che combattono per la propria sopravvivenza tra livelli devastanti di violenza».
Queste le parole di Leni Kinzli, portavoce del WFP per il Sudan.
Secondo l‘Agenzia delle Nazioni Unite l’intensificarsi degli scontri su El Fasher sta ostacolando gli sforzi messi in campo dalle agenzie umanitarie per portare viveri, medicinali ed assistenza nella regione.
«La minaccia di un imminente attacco militare a El Fasher, che ospita almeno 500mila sfollati interni, rischia di provocare un’escalation catastrofica, mettendo in pericolo la vita e il benessere di 750mila bambini»: questa la dichiarazione di Catherine Russell, Direttrice generale dell’Unicef, che risale al 3 maggio scorso.
«In termini militari, gli iniziali scontri (di un anno fa ndr.) sono evoluti in un confronto armato aperto su larga scala – ha spiegato Jean-Marc Gravellini, analista dell’Istituto di relazioni internazionali e strategiche (IRIS) con sede a Parigi – con considerevoli perdite di vite umane.
I morti ammontano ad almeno 15mila e metà della popolazione del Paese necessita di aiuti vitali, mentre 8,6 milioni di persone sono state costrette a lasciare la propria casa».
Il Sudan nel complesso è un Paese fantasma. (Clicca qui per altro aggiornamento)
La gente ha abbandonato case e villaggi per cercare riparo oltre-confine.
Alla fine di febbraio scorso un missionario italiano da noi contattato al telefono, faceva sapere che «Port Sudan (la città nella quale si trovava ndr.) è tranquilla, sembra quasi che qui non ci sia la guerra ma è strapiena di gente perchè molti sono venuti per fare i documenti e cercare di fuggire dal Paese.
E’ una emorragia umana di vite e di forze e di cervelli», ci aveva raccontato.
«Purtroppo questo è il quadro: non si tratta solo di Khartoum ma soprattutto del Darfour dove la Rapid Support Forces hanno attaccato per prime», diceva.
I colloqui di pace tra le parti in conflitto, sospesi a lungo, dovrebbero riprendere a Jeddah, in Arabia Saudita, in questi giorni.
«Data l’urgenza della pace, accogliamo la decisione dell’Arabia Saudita di riaprire i colloqui di Jeddah nelle prossime tre settimane», ha dichiarato Tom Perriello, inviato speciale degli Stati Uniti per il Sudan lo scorso 17 aprile.
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