Ventesimo giorno di guerra in Sudan, con tregue annunciate e mai rispettate (anche l’ultima, quella dei sette giorni), civili gravemente in pericolo e frontiere dei Paesi limitrofi aperte per consentire agli sfollati di lasciare il Paese.
La preoccupazione più grande degli operatori umanitari è per i milioni di civili intrappolati a Khartoum, a Omdurman e in altri centri urbani, con temperature che superano i 40°, rimasti senza più cibo nè acqua.
«Le due forze armate hanno ripetutamente usato armi esplosive nelle aree urbane causando perdite di vite umane, danneggiando le infrastrutture più importanti e lasciando milioni di persone senza accesso alle risorse primarie», denuncia oggi Human Rights Watch.
E’ notizia di un giorno fa che sei carichi di scorte alimentari del Programma Alimentare Mondiale, fermi nella regione del Darfur, siano stati saccheggiati: non hanno ricevuto il via libera per arrivare nelle zone sotto assedio. (clicca qui)
Subito dopo aver perso tre dei suoi operatori, uccisi in Darfur all’inizio del conflitto, il Pam aveva sospeso gli aiuti, poi ripristinati. Ma il problema è farli arrivare.
Un portavoce delle Nazioni Unite ha fatto sapere ieri che 17mila tonnellate di cibo su un carico di 80mila è stato trafugato prima di arrivare a destinazione.
«”Non stiamo chiedendo la luna – ha detto Martin Griffiths a capo degli aiuti umanitari delle UN – Stiamo chiedendo solo di far passare aiuti e persone, lo facciamo in qualsiasi Paese, anche senza ‘cessate il fuoco’».
Ma non in Sudan, evidentemente.
Dove i due generali in conflitto, Al-Bhuran e Hamedti, sono decisi a proseguire l’escalation militare nonostante le dichiarazioni di tregua e forse hanno difficoltà a tenere sotto controllo le impennate dei rispettivi eserciti.
«Temiamo un impatto sociale forte», ci spiega al telefono Alessandra Morelli, ex funzionaria dell’Unhcr oggi in pensione.
«Il flusso di rifugiati supera le 60mila persone e aumenterà – spiega – a meno che la violenza non si fermi.
Il paradosso è che molte persone dal Sud Sudan si erano trasferite proprio in Sudan durante la precedente guerra, e adesso sono costrette a tornare nel proprio Paese dove le cose non vanno bene»
Le agenzie delle Nazioni Unite sono presenti alle frontiere, la richiesta ai Paesi limitrofi da parte di Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, «è di tenere aperti i confini per accogliere», dice ancora Morelli.
I missionari salesiani che non hanno lasciato il Paese– esattamente come i comboniani e diversi altri – hanno fatto sapere che una bomba è caduta qualche giorno fa sul tetto del loro laboratorio di Khartoum.
«Per fortuna non c’era nessuno – dicono – Sotto alcuni proiettili raccolti in cortile.
I ribelli (l’esercito paramilitare ndr.) sono aiutati dai soldati del gruppo Wagner che proteggono le miniere d’oro in Darfur sfruttate dai russi».
“I comboniani ad Omdurman stanno abbastanza bene ma anche da loro il cibo scarseggia e sono molto preoccupati per la carenza d’acqua poiché tubi e condutture sono stati colpiti dai militari”, racconta una fonte missionaria.
E nel frattempo i civili, tra due fuochi, resistono e si affidano all’autodifesa: sono organizzati in comitati di resistenza.
«Non contiamo sui generali, perché sappiamo che a loro non importa di noi. Contiamo sulle persone», dicono.
«Con temperature che superano i 40° io normalmente dormo fuori, in giardino, ma sono troppo spaventata per farlo adesso: vedo i jet da combattimento sorvolare casa mia, ad Omdurman city, nonostante l’annuncio di ‘cessate-il-fuoco’», scrive sul sito della BBC la giornalista Zeinab Mohammed Salih.