Il nuovo Sudafrica sognato da Nelson Mandela, così come nato dalla lotta anti-apartheid, «non riuscì mai davvero a saldarsi completamente a quel modello di giustizia ed uguaglianza che aveva in mente l’African National Congress delle origini». Perchè?
Si è trattato di una sorta di “incompiuto politico e sociale” che ancora pesa sulle spalle di una popolazione di 59,89 milioni di persone, soggette alla corruzione dei centri di potere e alla violenza negli slum abbandonati a sé stessi.
A parlare in questi termini è Itala Vivan, africanista, docente alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Milano, intervenuta al seminario Dialoghi sull’Africa, ad aprile scorso.
Alla luce del risultato elettorale che vede crollare il consenso all’African National Congress, pubblichiamo una parte dell’articolo uscito su Popoli e Missione di giugno.
Il nuovo Parlamento sudafricano che nascerà dopo queste ultime elezioni (400 i seggi totali) vedrà l’Anc occupare 159 seggi appena, seguito da Democratic Alliance (87), uMkhonto we Sizwe (39) e gli altri minori.
Cosa è accaduto allo storico partito di Mandela?
Secondo la studiosa una delle ragioni di questo “tradimento” e delle disuguaglianze sociali, risiede in una mancata riforma della scuola e dell’istruzione, cosa che ha accresciuto di molto il solco tra bianchi e neri.
Anche dopo la fine dell’apartheid, era il 1994, ricorda Vivan, «non si finanziarono mai abbastanza le scuole pubbliche rurali delle township e non si rese l’istruzione gratuita e obbligatoria per tutti.
Sarebbe stato un elemento che negli anni avrebbe reso molto, affievolendo il gap economico tra ricchi e poveri, black and white».
Il Sudafrica vive oggi di corruzione, di contraddizioni, di forti disuguaglianze e ingiustizie a carico della classe operaia e del sottoproletariato urbano.
Oggi la scuola pubblica, soprattutto negli slum è di pessima qualità e le famiglie che hanno un reddito appena poco al di sopra della media, preferiscono mandare i loro figli negli istituti privati.
Alcuni sobborghi della capitale sono molto pericolosi e la violenza è dilagante.
Nel distretto di Diepsloot, a nord di Johannesburg, ad esempio, i bambini giocano nei cortili delle scuole dove si ammonticchiamo rifiuti e immondizie di ogni tipo.
«Le scuole erano già disastrate prima del nuovo corso; c’erano quattro dicasteri: le scuole per bianchi, per meticci, per neri e per asiatici – ricorda la studiosa – Ed il finanziamento pubblico era gradualmente inferiore via via che si scendeva lungo la scala di valori creata dai bianchi.
Le scuole dei neri erano pessime. Allora si cercò di unire i dicasteri e se ne creò uno al posto dei quattro». Ma le cose non migliorarono.
L’attuale presidente, Cyril Ramaphosa è considerato un politico controverso.
«La democrazia del Sudafrica è giovane – ha detto di recente Ramaphosa in un discorso pubblico per i 30 anni dalla fine dell’apartheid – Ciò che abbiamo raggiunto in questi anni è qualcosa della quale dovremmo andar fieri.
Questo è un posto infinitamente migliore di quanto lo fosse 30 anni fa».
Che sia proprio così non ne sono tutti certi.
«Nel 2012 accadde un fatto terribile e indimenticabile – ricorda Vivan: la repressione nel sangue dello sciopero dei minatori a Marikana».
Questo è il distretto delle grandi miniere di platino, «dove i minatori che venivano dalle zone rurali e soffrivano la fame, chiesero un piccolo aumento che venne loro negato- ricorda la studiosa –
La risposta fu che arrivò la polizia e gli sparò addosso quando essi chiedevano solo una mediazione, solo di fare un patto».
Il 16 agosto del 2012 la polizia sudafricana SAPS apriva il fuoco su quel gruppo di minatori durante lo sciopero alla Lonmin, una miniera di platino, a Marikana, nella Rustenburg, la provincia nord-occidentale del Sud Africa.
Ben 34 uomini vennero ammazzati: è il caso più grave di violenza contro civili della polizia sudafricana dalla fine dell’apartheid nel 1994.
Spesso viene paragonato al massacro di Sharpeville del marzo del 1960, quando la polizia sparò sui dimostranti riuniti per l’abolizione della legge sui passaporti che impediva ai neri di muoversi.
Il dramma fu che nel Consiglio di amministrazione della società che guidava la miniera c’era proprio lui: Cyril Ramaphosa.
Vivan lo ricorda con sgomento e delusione: «fu lui ad inviare una mail chiedendo che fosse posto fine a quella situazione di disordini, e lui poi nel febbraio 2018 divenne presidente.
Questa è una delle cose pessime accadute nel Sudafrica degli ultimi venti anni -ripete – Ramaphosa è un uomo molto capace ma è stato sempre debolissimo».
Il massacro di Marikana ancora brucia.