Rafael Luciani, laico, è un teologo venezuelano. E’ docente di ecclesiologia, di teologia latinoamericana e di teologia del Vaticano II all’Università Cattolica di Caracas e alla Scuola di Teologia del Boston College nel Massachusetts, Stati Uniti. Tra gli esperti della commissione teologica della segreteria generale del Sinodo dei vescovi in Vaticano.
Il Sinodo sulla Sinodalità quali cammini sta aprendo?
«Il Sinodo sulla Sinodalità penso stia aprendo un po’ la strada nel creare consapevolezza sulla necessità di un cambiamento nella Chiesa, ad esempio per quanto riguarda il tema del clericalismo, oppure il tema di una corretta trasparenza finanziaria.
Sono temi che hanno creato nel tempo coscienza e discernimento partito dalle comunità, dal basso, per arrivare alle diocesi, alle Chiese continentali e infine alla Chiesa universale».
Insomma, ha messo in moto un processo…
«Il Sinodo sta indicando un modo di procedere ecclesiale, che è parte della Chiesa, delle Chiese. Abbiamo bisogno di capire questo processo come una forma istituzionale di lavorare e di fare Chiesa d’ora in avanti.
E’ tempo di abbandonare l’idea di una Chiesa universale che si antepone, che viene prima delle Chiese particolari: questo cambiamento ci sfida a ricollocare e rivalutare il ruolo delle Chiese locali, come delineato dal Concilio Vaticano II».
Cosa ha portato, secondo lei, a questa nuova consapevolezza?
«Penso che venga anche da voci fuori dalla stessa Chiesa, come i giornalisti che per anni hanno denunciato il tema degli abusi. Questa coscienza è cresciuta e ha incontrato ad intra il tema del clericalismo, del potere, delle relazioni, dell’organizzazione e della partecipazione nella Chiesa. Tutto questo ha consolidato la necessità di una riforma».
Molti, anche dentro la Chiesa, sono convinti di questo, non le pare?
«Si, però non basta la conversione personale. Serve una riforma strutturale dove il modo di organizzarsi e funzionare come Chiesa faccia sentire ogni persona, (presbitero, laico, laica, religioso o religiosa) parte vera ed effettiva della stessa Chiesa, non solo strumento da usare nelle varie esigenze.
Si sono fatti passi avanti, certo, che stanno dando dei frutti. Già si è iniziato a concepire la vita ecclesiale come processo che parte dall’ascolto delle persone e non dall’idea di una chiesa che dall’alto della gerarchia scende verso il basso. Questo modo di procedere dal basso crea coscienza della necessità di forme nuove di partecipazione».
Esempio?
«Le donne, oggi c’è bisogno di riconoscerle per il lavoro pastorale che svolgono, e di farle entrare nella governance della Chiesa ai vari livelli.
Una Chiesa che si rapporta con le istituzioni del mondo ha la necessità di riorganizzarsi, di integrare i soggetti e di fare Chiesa in un modo partecipativo.
Il concetto di Chiesa in transizione implica un cambiamento di mentalità, e ogni cambiamento crea paura.
Uno dei temi che crea paura oggi è il potere: se sono abituato a decidere da solo e ora devo imparare a decidere insieme, a costruire processi decisionali con gli altri, questo implica una conversione della mentalità che si traduce in un diverso modo di organizzarmi.
Altre paure sono legate ai ministeri: l’idea di Chiesa ministeriale delinea una Chiesa con una responsabilità condivisa e corresponsabile, non centrata solo sulla figura del presbitero, che si apre a forme di lavoro in equipe con tutti i soggetti presenti nella comunità, come sta accadendo in tante parti del mondo.
Un modo di superare la paura è capire la differenza, in una comunità, in una parrocchia, tra presidenza e coordinamento: la presidenza spetta al presbitero che presiede l’eucarestia e presiede anche l’assemblea e la comunità.
Diverso il coordinamento, che può essere portato avanti da laici, laiche, religiosi o religiose che vivono nella comunità.
Queste forme di pensare e procedere nelle comunità aiutano a superare la paura intorno al potere nella gerarchia, che è uno degli ostacoli maggiori al cammino sinodale oggi»