Quando l’Alto Volta divenne il Paese degli uomini integri

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La sera del 4 agosto 1983 si apriva nell’allora Alto Volta, una stagione politica destinata a lasciare un segno indelebile nella storia del continente africano: iniziava la rivoluzione burkinabé. Il neo presidente è un giovane capitano di 32 anni di nome Thomas Sankara e il suo programma è tutto racchiuso in un virgolettato ad effetto: «Noi siamo quello che siamo, cioè un regime che si consacra anima e corpo al benessere del proprio popolo. Chiamate ciò come volete, ma sappiate che non abbiamo bisogno di etichette. La nostra è una rivoluzione autentica, diversa dagli schemi classici».

Per la stampa internazionale d’allora si tratta dell’ennesimo colpo di stato in un Paese ridotto allo stremo: sette milioni di abitanti, dei quali più di sei milioni contadini; un tasso di mortalità infantile stimato al 180 per mille e un tasso di analfabetismo del 98 per cento; un’aspettativa di vita media di soli 40 anni; un medico ogni cinquantamila abitanti; un tasso di frequenza scolastica del 16 per cento.

Sankara ed i suoi seguaci mirano dunque al cambiamento radicale di una società afflitta da miseria, inedia e pandemie. L’Alto Volta cambia nome: da ora in poi si chiamerà Paese degli uomini integri (questo significa Burkina Faso). Una società che nelle aspirazioni dei fautori del nuovo corso non avrebbe più visto la contrapposizione tra sfruttati e sfruttatori, affermando un bene comune condiviso. Ed è proprio nell’attuazione politica di quest’idea che Sankara riesce a dare, probabilmente, il meglio di sé, dimostrandosi politico capace e ricco di idee nei suoi quattro anni di governo. Un lasso di tempo relativamente breve ma che rimane oggi come una sorta d’indelebile paradigma della politica intesa come servizio. I suoi detrattori quando parlano lo apostrofano a puntino: «Ce fou de Sankara» («quel matto di Sankara»), anche se il giudizio è impietoso e non risponde alla verità dei fatti. Con ardite e radicali riforme — tra cui la forte decentralizzazione dell’amministrazione, l’abolizione di balzelli feudali, la riforma agraria, la promozione della donna e forti investimenti nelle infrastrutture — riesce in poco tempo a realizzare nel suo Paese una maggiore giustizia sociale e con essa l’autosufficienza alimentare a livello nazionale. Al contempo si rifiuta di firmare i piani di aggiustamento strutturale, che il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) intende imporgli a tutti i costi, sostenendo che le politiche dei Paesi industrializzati sono finalizzate «a perseguire un controllo politico sui poveri». Dimostra fin da subito un’istintiva antipatia per i creditori internazionali che gli impongono linee di finanziamento in totale contrasto con i bisogni del popolo.

La Banca Mondiale (Bm), ad esempio, è disposta a finanziare un’autostrada che colleghi la capitale con il nord del Paese, ricco di manganese. Ma sapendo che la sua gente non può permettersi, neanche sognando ad occhi aperti, l’acquisto di una “giardinetta”, decide di realizzare una ferrovia con l’aiuto di volontari — inclusi i membri del suo governo — e, per inciso, senza ricevere finanziamenti dall’estero. Il suo intervento al Palazzo di Vetro, durante la trentanovesima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, è toccante: «Il mio Paese è un concentrato di tutte le disgrazie dei popoli, una sintesi dolorosa di tutte le sofferenze dell’umanità», aggiungendo che parla «a nome di coloro che vivono nei ghetti della storia, perché hanno la pelle nera, […] e chiedo uno sforzo perché abbia fine l’arroganza di chi ha torto, svanisca il triste spettacolo dei bambini che muoiono di fame, sia spazzata l’arroganza, vinca la legittima rivolta del popolo e tacciano finalmente i tuoni di guerra».

Ma certamente, l’aspetto che maggiormente colpisce di Sankara è la sobrietà di vita al punto che, senza indugio, mette al bando ogni privilegio per la classe dirigente burkinabé, stigmatizzando ogni forma di arricchimento indebito da parte di chiunque rivesta ruoli di responsabilità nell’amministrazione pubblica. Ordina la vendita delle Mercedes che compongono il parco-macchine statale e proclama l’economica “Renault 5”, auto-blu ministeriale. Non solo: dichiara pubblicamente d’essere proprietario soltanto di una moto e di una piccola casetta di cui sta pagando il mutuo. Da rilevare che questo è stato, fino alla fine del suo corso, lo stato patrimoniale di Sankara. Convince o costringe — non è chiaro, ma poco importa — i suoi ministri a volare in classe economica, soggiornando all’estero in hotel di due, massimo tre stelle. Ripete sempre, nei suoi discorsi che l’Africa non chiede beneficenza ma giustizia e per questo esige coerenza in casa. Ha il dente avvelenato con le élite borghesi africane che impongono un feudalesimo fatto d’intrighi e costrizioni, auspicando maggiore correttezza dalle ex potenze coloniali. Paladino delle riforme economiche, invoca nuove regole per il commercio mondiale, ritenendo in particolare la questione della restituzione del debito estero come uno dei più grandi crimini contro le popolazioni immiserite dell’Africa Sub-Sahariana. «La sorte riservata dal colonialismo ai Paesi poveri — dice — è la perpetua mendacità come modello di sviluppo». E la sua analisi si spinge ben oltre, evidenziando come l’interesse dei Paesi ricchi, durante la guerra fredda, miri a dominare i poveri non solo militarmente ed economicamente ma anche culturalmente. Condanna l’infibulazione e la poligamia, e il suo governo è il primo a dichiarare apertamente che l’Aids costituisce la peggiore minaccia di tutti i tempi per l’Africa.

Rileggendo oggi la presidenza Sankara, non v’è dubbio che galvanizzò tutte le vicine nazioni dell’Africa occidentale ma irritò, com’era prevedibile d’altronde, i grandi poteri occidentali del tempo; e probabilmente anche per questo Sankara pagò a caro prezzo il suo successo. Il giovane presidente venne assassinato il 15 ottobre del 1987 a soli 37 anni, durante un golpe che portò al potere, ironia della sorte, il suo amico ed ex compagno di lotta Blaise Compaoré (che governò il Burkina Faso ininterrottamente per 27 anni). Come rileva Marinella Correggia nell’introduzione a un prezioso saggio su Sankara, curato da Carlo Batà per le edizioni Achab, la rivoluzione del capitano «fu spezzata a metà del guado. Sankara aveva chiesto troppo ai vertici, ormai stufi dello sforzo rivoluzionario; e intanto la base rurale e popolare, i contadini, le donne non erano ancora socializzati alla politica».

Rileggendo la storia di questo straordinario personaggio, emergono anche tante debolezze e ingenuità, ma certamente colpisce la sua visione incentrata sull’azzardo dell’utopia: «Per ottenere un cambiamento radicale — diceva — bisogna avere il coraggio d’inventare l’avvenire. Noi dobbiamo osare d’inventare l’avvenire. Tutto quello che viene dall’immaginazione dell’uomo è per l’uomo realizzabile. Di questo sono convinto!». Vengono alle mente le parole dell’intellettuale beninese Albert Tévoédjrè che, in un magnifico libro — intitolato “Povertà, ricchezza dei popoli” — cita una poesia di Salvador Diaz Mirón: «Sappiatelo, sovrani e vassalli, eminenze e mendicanti, nessuno avrà diritto al superfluo, finché uno solo mancherà del necessario». Ed è questa la vera questione di fondo: l’Africa ha bisogno di leader illuminati capaci d’essere, come scriveva lo stesso Tévoédjrè, «prima di tutto dei dirigenti della vita sociale». Proprio come Sankara che pagò con la vita le sue convinzioni, finendo in una fossa comune. Come scrive di lui un giornalista malgascio, Sennen Andriamirado: «Non fu un presidente come gli altri. È stato semmai un incidente della Storia, però un incidente felice». È per questo che in Africa nessuna libera coscienza può fare a meno di ricordarlo.

 

Osservatore Romano, 31 luglio 2019

 

Foto: Afp/ Daniel Laine