Quale mondo vogliamo? Oltre la post-democrazia e l”Africa first” di Eni

Una conferenza all'Università Gregoriana lancia spunti di riflessione e nuovi input.

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Tutta l’America Latina è in «recessione democratica».

«Negli ultimi 15 anni la regione ha perso 11 democrazie: otto di esse sono scivolate in regimi ibridi»,  mentre le democrazie reali sono ridotte a due: Costa Rica e Uruguay.

Quattordici anni fa, il 20% dell’America Latina era considerato non democratico, oggi questa percentuale è salita al 60%.

Di questo e di molto altro si è dibattuto il 27 marzo scorso all’Università Gregoriana di Roma, nell’ambito della Conferenza InternazionaleDemocrazia per il Bene comune: quale mondo vogliamo costruire”.

Tra i relatori Rodrigo Guerra Lopez, della Pontificia commissione America Latina e docente alla Gregoriana; Mark Lewis, Rettore della Pontificia Università e Claudio Descalzi, amministratore delegato dell’ENI che ha parlato delle prospettive europee in Africa nel contesto della crisi energetica. 

Corruzione, riduzione della libertà di stampa, eccessiva concentrazione del potere nell’esecutivo, sono tutti segnali di debolezza democratica, in Sudamerica come in Africa, naturalmente.

Il rischio sempre in agguato è quello che prevalga l’idea di post-democrazia.

Ma è stato proprio l’intervento di Descalzi a suscitare le maggiori perplessità e molte domande.

L’Ad di Eni ha lanciato lo slogan “Africa first” affermando che l’Italia e la multinazionale degli idrocarburi hanno bisogno dell’Africa per l’approvvigionamento energetico. 

Ma che anche l’Africa, da noi messa al primo posto, ha bisogno di noi.

La fame di energia «apre a nuovi territori»: la situazione energetica europea è deficitaria e bisogna «puntare sulla diversificazione, a partire da quella geografica e tecnologica», ha detto.

«Africa first significa mettere al primo posto l’interlocutore – è  stata l’affermazione di Descalzi che ha lasciato senza parole la platea- bisogna occuparsi di loro (africani ndr.) come se fossimo noi».

E ancora, in uno slancio da lui stesso definito missionario: «con i soldi non si può soddisfare lo spirito delle persone, ci vuole l’amore, la capacità di soffrire con loro».

Uno studente del Camerun in aula ha provato ad obiettare che la logica del profitto non è quella missionaria.

E a chi faceva notare che diversi Paesi africani dove Eni opera (in tutto sono 14 quelli in cui investe in gas e petrolio) sono antidemocratici e in guerra, come il Mozambico, Descalzi ha risposto che «il Mozambico non è in una guerra ma semmai ha attentati terroristici nel Nord, a Cabo Delgado».

E che «l’Eni è presente off-shore» nelle acque profonde, e dunque si troverebbe lontano dalle zone degli attentati.

Per Eni solo le guerre tradizionali tra Stati sono motivo di dissuasione dagli investimenti, come ha precisato l’AD.

I nostri missionari raccontano però storie diverse: di grande tensione e paura in regioni soggette a guerre ibride, guerre civili e atti di terrorismo; la destabilizzazione provoca abbandono della terra da parte dei poveri e lotta per il potere da parte di chi partecipa alla gara predatoria.

A Cabo Delgado la distruzione in tutta l’area ha spinto gli sfollati verso il Sud, nella regione di Nampula, dove peraltro i missionari accolgono.

Appena un anno fa la città di Macomia, capitale del distretto di Cabo Delgado – che «è sotto una fortissima tensione» è stata sfollata e «molti villaggi nelle zone circostanti sono stati attaccati». Come ha raccontato una missionaria a Vatican News.

I gruppi armati islamisti hanno bruciato case e costretto gli abitanti a fuggire, spinti dal delirio di onnipotenza. 

Mentre l’Eni, protetta dai contractors privati, non ha mai abbandonato le acque profonde dell’oceano di Cabo Delgado con Coral South, neanche nei momenti più concitati della guerra.

Se questo è il contesto in cui le multinazionali operano, ogni tentativo di portare sviluppo viene vanificato per lasciare spazio ad una lotta per le ricchezze, alla quale noi partecipiamo con largo vantaggio.