Mentre prosegue la ricerca dei superstiti nella regione di Enga, in Papua Nuova Guinea, le attività nella vicina miniera d’oro di Porgera, a pochi chilometri dal luogo della catastrofe, non si fermano.
Dopo che venerdì scorso un’intera montagna è collassata su stessa, seppellendo vive oltre 2mila persone nei pressi di Porgera, i minatori del sito sino-canadese hanno continuato a scendere nei meandri della terra.
L’attività mineraria della Gold mine gestita dalla cinese China’s Zijin Mining e dalla canadese Barrick Gold, riferiva due giorni fa il sito di Mining Weekly, non ha subito alcuna “restrizione” alle operazioni di scavo.
«La miniera, pur isolata, ha abbastanza carburante in situ per andare avanti circa 40 giorni», ha dichiarato la Barrick Gold lunedì scorso.
Affermazione paradossale se si considera che per soccorrere i feriti non ci sono nè mezzi nè strade percorribili.
Il sito minerario è stato più volte oggetto di denunce da parte di organizzazioni in difesa dei diritti umani, per le pessime condizioni di lavoro dei minatori.
D’altra parte la Papua è l’ottavo produttore al mondo di oro con le miniere di Kainantu, Ok Tedi, vicino al confine indonesiano, Porgera, Lihir e Panguna da cui si estraggono anche grandi quantità di rame.
L’intera zona oggetto della frana «è formata da pietra calcarea – ha detto alle telecamere di Channel 4 News, Serahn Aktoprak, funzionario dell’Agenzia Onu per l’immigrazione – Ma è la prima volta che accade un episodio del genere».
Questa frana «può esser dovuta ad una serie di fattori – ha spiegato Aktoprak – non ultimi i continui tremori (sorta di scosse sismiche) nella cosiddetta “cintura di fuoco del Pacifico”».
Ossia la zona caratterizzata da frequenti terremoti ed eruzioni vulcaniche.
In quest’area remota del Pacifico, sulla costa più a nord dell’Australia, e due isole, la popolazione è molto povera e vive essenzialmente di agricoltura.
«Ho vissuto 23 anni in Papua, io vengo dalle Filippine.
Ero un’insegnante e cercavo di portare istruzione per i bambini e le mamme nelle aree più povere, che sono quelle rurali», ci racconta suor Pamela Vicina, delle missionarie del Sacro Cuore, oggi a Roma.
I nostri missionari sono presenti lì con diverse congregazioni, compresi i fidei donum, i salesiani e i missionari del Pime.
«Il nostro popolo è diventato il primo gruppo di profughi a causa del cambiamento climatico», ci aveva spiegato mesi fa padre Christian Banda, sacerdote papuano in Italia per motivi di studio.
«Spostarsi altrove non è facile per la gente perchè da noi il 90% delle terre appartiene al popolo che ci vive sopra e non allo Stato.
Quando una tribù si sposta, lo Stato deve collocarla su un altro territorio che non sia già di proprietà di altri. E questo crea dei conflitti».
Ed è il motivo per cui la conflittualità tra le centinaia di tribù è molto elevata.
Dunque, si continua a vivere su terreni instabili, per difficoltà di spostamento e per via di una povertà drammatica che non lascia alternative.
«Isolate per millenni, in meno di un secolo queste etnie sono entrate in contatto con uno sviluppo sempre più veloce – spiega ancora don Christian -.
La zona interna del Paese è stata scoperta solo negli anni Trenta del secolo scorso dai missionari e dagli esploratori che cercavano l’oro.
Sono nato in un villaggio nelle montagne nella diocesi di Kundiawa e ricordo il primo cellulare arrivato nella mia zona nel 2007.
I popoli originari hanno saltato tanti millenni di storia dell’umanità. Ci sono persone che non sanno leggere ma sanno usare il cellulare.
In qualche decennio da noi è avvenuta una rivoluzione industriale e tecnologica che in occidente è durata secoli».
In questo momento per via delle macerie e del collasso dei detriti sull’autostrada, è praticamente impossibile avere accesso con mezzi pesanti e portare aiuto alla gente di Yambali.
Finora sono stati rinvenuti tra le macerie i resti di sole sei persone.
La micidiale frana avvenuta nella provincia di Enga dovrebbe aver causato oltre duemila morti tra gli abitanti; durante la notte di venerdì il villaggio di Yamabali è venuto giù per intero, mentre era ancora addormentato.
«Il Signore conforti i familiari, quanti hanno perso la casa e il popolo papuano che a Dio piacendo incontrerò nel settembre prossimo», queste le parole di papa Francesco, pronunciate oggi in udienza generale.
Il pontefice conferma, dunque, per ora, il viaggio apostolico in Indonesia, Papua Nuova Guinea, Timor Est e Singapore, in agenda dal 2 al 13 settembre.