In un’isola sperduta nell’Oceano tutto diventa inaspettato a causa del clima, racconta suor Chiara Colombo delle Missionarie dell’Immacolata. Tra cicloni e debolezza dello Stato, la missione a port Moresby è una sfida di inculturazione.
I nativi parlano del loro Paese come della “Terra dell’inaspettato”, perché tutto può accadere da un momento all’altro, in maniera imprevedibile ed inesorabile.
Secoli, forse millenni, di vita in balia degli eventi atmosferici, cicloni e maremoti, hanno regalato agli abitanti di Papua Nuova Guinea una profonda saggezza nei riguardi dell’esistenza.
«E’ una dicitura questa, forse, un po’ abusata ma che la gente applica veramente al suo quotidiano, perché quando sei in balia degli eventi, del clima, del tempo, delle difficoltà di comunicazione, in un’isola sperduta nell’Oceano tutto diventa inaspettato», racconta suor Chiara Colombo, religiosa delle Missionarie dell’Immacolata, dal 2016 a Papua Nuova Guinea.
«La notte del 6 marzo 2019 un ciclone spaventoso ha travolto l’isola di Watuluma – ricorda la suora -, alberi centenari sradicati come se le radici fossero di cartongesso, orti spazzati via per lasciare spazio ad acquitrini e pozze stagnanti.
Ebbene, dopo un disastro del genere, al posto di tristezza e scoramento, arrivando nei villaggi abbiamo trovato il sorriso della gente, un sorriso fatto di speranza operosa, che si rimbocca le maniche e che non vuole lasciare agli eventi l’ultima parola».
Indipendente solo dal 1975, Papua Nuova Guinea occupa la regione orientale della Nuova Guinea più altre isole ed arcipelaghi ad Est della quasi omonima isola.
Famosa per le sue spiagge e barriere coralline, Papua possiede una variegata diversità biologica ma, soprattutto, una incredibile diversità linguistica. Oltre alle tre lingue ufficiali – inglese, tok pisin e hiri motu – conta altre 850 lingue locali (non dialetti), che ne fanno il Paese con la maggior densità linguistica al mondo dopo Vanatu.
«Questo della comunicazione è un vero problema – dice suor Chiara -, per noi occidentali ma per gli stessi abitanti di Papua, che spesso conoscono solo la lingua locale ed un po’ di tok pisin, una lingua creola basata sull’inglese e sul tedesco».
Arrivate a Papua Nuova Guinea nel 1989 su invito del vescovo di Alotau, Desmond Moore, le Missionarie dell’Immacolata sono presenti nell’isola con sette comunità ed una ventina di consorelle.
Si occupano principalmente di catechesi e prima evangelizzazione, ma sono attive anche nel mondo dell’educazione ed in quello della sanità, nell’accompagnamento dei giovani e delle donne.
«Lo Stato fa veramente poco per le cure e per l’istruzione – spiega suor Chiara -.
I ragazzi lasciano la scuola dopo l’obbligo, che in realtà lì non esiste, nessuno controlla, la scuola è gratuita ma la gente non ne vede l’importanza, e spesso i giovani decidono di rimanere o tornare nei campi per provvedere alla loro sussistenza e a quella delle loro famiglie».
Le pratiche del sand mining e del seabed mining – l’estrazione della sabbia e lo sfruttamento delle risorse nei fondali marini – sono una ulteriore dimostrazione della debolezza dello Stato papuano, incapace di emanare leggi appropriate per regolamentare l’esproprio delle sue immense ricchezze naturali da parte di compagnie straniere.
A far conoscere i pericoli per l’esistenza di intere aree della costa di Papua gli stessi missionari del PIME che, di recente, hanno denunciato come l’equilibrio ambientale del Paese abbia subito, nell’ultimo decennio, un grave degrado a causa di pratiche non sostenibili di utilizzo delle risorse, deforestazione, distruzione degli habitat naturali, inquinamento e cattiva governance del territorio.
«Lavorare in un contesto tanto lontano dal mondo occidentale rappresenta una vera sfida per noi missionari – sottolinea suor Chiara, adesso nella capitale Port Moresby, ma per quattro anni nell’isola di Kiriwina -.
Se una congregazione arrivando a Papua pensasse di lavorare fuori da uno schema sinodale, sarebbe da matti – spiega senza mezzi termini -.
Non è pensabile di far le cose da soli.
Lavorare insieme è una necessita, sia per la testimonianza che si offre, sia per dare efficacia al lavoro in un Paese tanto particolare quanto dispersivo».
Interessante e fruttuoso il lavoro di inculturazione fatto nella catechesi.
«In un mondo con radici tanto diverse è fondamentale mettersi in un atteggiamento di vero ascolto, lavorando sull’incontro e lo scambio reciproco – spiega suor Chiara -.
Se dobbiamo parlare delle nozze di Cana, per fare un esempio, ci si confronta prima sul significato del matrimonio nella loro cultura, e solo dopo si arriva all’esegesi.
Non a caso il tabernacolo di molte chiese di Papua ha la forma di una yam house, la costruzione che nei villaggi conserva, come un sacrario, lo yam, il tubero che nella cultura locale è quanto di più prezioso possa esistere.
Non si tratta di adattare il Vangelo a delle tradizioni locali – chiarisce -, quanto di comprenderlo meglio proprio alla luce di quelle».
Nell’alveo di questo lavoro di inculturazione si inserisce anche la traduzione della Bibbia in lingua kiliwila, esercizio risultato tanto faticoso quanto entusiasmante.