Padre Nascimbene e i pañuelos rojos alle finestre di Bogotà

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Uno dopo l’altro sono spuntati sui balconi, sulle finestre, sui portoni dei quartieri poveri di Bogotà.

Sono i pañuelos rojos i pezzi di stoffa rossa messi fuori di casa da famiglie che soffrono la fame per il lockdown imposto dal Coronavirus in Colombia. Indicano che dietro quella porta, quella finestra, quel terrazzo c’è qualcuno che ha perso il lavoro, non ha da mangiare. E chiede aiuto.

In questa realtà padre Franco Nascimbene, 67 anni, comboniano originario di Malnate (in provincia di Varese), ha fatto la scelta radicale di vivere in mezzo ai più bisognosi nelle periferia di Bogotà, mantenendosi con quel poco che guadagna come venditore ambulante di latte di soia. Non ha né computer né telefonino, ma grazie ad un internet point ogni tanto comunica con gli amici lontani.

All’inizio dell’epidemia, racconta «i miei compagni della comunità comboniana di Bogotá mi hanno detto che dovevo decidere se restare con loro o vivere nel quartiere durante la quarantena, per non portare in giro possibili virus. La mia decisione è stata immediata e sono rimasto in periferia».

Qui il missionario condivide le precarietà e i rischi di chi è stravolto dalla crisi economica: «Il governo sta consegnando cibo alle classi popolari, però quello che arriva é molto poco rispetto a ciò di cui si ha bisogno. Nel nostro quartiere il virus non é arrivato, ma ci sono centinaia di famiglie rimaste senza lavoro e senza niente da mangiare. Ad esempio tra i 20 vicini della mia strada, solo cinque famiglie hanno un membro che continua a lavorare e siccome di solito quasi nessuno mette da parte denaro, hanno tutti seri problemi per mangiare».

Da un mese la Colombia si è fermata, ad eccezione di alcuni servizi indispensabili e il bilancio per ora è di 4.000 infettati e 200 morti. Nell’ultima settimana di aprile le imprese edili (stanno trasformando un grande albergo e i locali di un expò in due grandi centri per accogliere i malati gravi) e le consegne di cibo a domicilio potranno riprendere e, dice il missionario «anche io penso di ricominciare a consegnare il mio latte di soia a domicilio ai clienti fissi. Nel quartiere (dove ci sono anche molti profughi venezuelani sprovvisti di tutto) si soffre ma c’è molta solidarietà. Insieme ad un gruppo di laici sto collaborando per aiutare chi è in difficoltà con cibo e soldi, si condivide on chi sta peggio. Anch’io, che da un mese sono rimasto senza lavoro, quasi tutti i giorno ricevo qualcosa: cinque uova, qualche pomodoro, un pezzo di pollo, un sacchetto di lenticchie,un chilo di riso….é la tenerezza dei poveri che sta trionfando».

In questa situazione, padre Franco riesce ad essere una presenza di Vangelo in mezzo alla gente, anche senza poter celebrare messa e amministrare i sacramenti. Ma come sempre, dice «anche oggi con i vicini di casa faremo una preghiera ecumenica, restando ognuno davanti alla porta di casa. Non posso svolgere attività pastorali ma mi sento avvolto da un manto di solidarietà. Qui è tangibile il motto evangelico che più si dà, più si riceve. Pur nella durezza di una lotta per la sopravvivenza,la fraternità sta trionfando».