«Se si vuole attuare un piano (di pastorale ed evangelizzazione ndr.) in Africa, che è stato letto in un libro e calato dall’alto non funziona». Il missionario non è un «protagonista» solitario della missione, ma una presenza che accompagna.
La missione è fin dall’inizio «condivisione» di un progetto evangelico con le comunità che vivono i luoghi e permeano le società nelle quali si è inviati.
E’ padre Christian Carlassare, vescovo eletto di Rumbek in Sud Sudan, vittima di un attentato per fortuna senza conseguenze per lui, a spiegare il “metodo” missionario che segue, in base al carisma comboniano, la congregazione cui appartiene.
Intervistato ieri sera da Anna Moccia per il web-magazine Terra e Missione, padre Christian ha parlato a lungo della sua vocazione ma anche del modo in cui lui stesso si è avvicinato alle comunità, portando l’esempio di quando era tra le popolazioni Nuer e Dinka, da sempre riconosciuti come gruppi etnici in conflitto, ma in realtà permeabili al messaggio evangelico della convivenza e del perdono.
Per fare missione dal basso, andando nelle comunità in punta di piedi, in un paese a maggioranza musulmana, non per questo ostile, e condividere i modi della pastorale, «ci vuole molto tempo – ha spiegato padre Chrisian – rispetto a quando il protagonista è il missionario stesso».
E questo metodo sarebbe utile anche alla «Chiesa italiana che ne ha proprio bisogno. Bisognerebbe dare molta più responsabilità a chi è disponibile a mettersi in gioco nella comunità».