«Una buona notizia: padre Emmanuel Silas, della diocesi di Kafanchan, uno dei tre sacerdoti cattolici rapiti in Nigeria, è stato liberato. Non smettiamo di sostenere con la preghiera i suoi confratelli ancora nelle mani dei rapitori».
Lo scrive Acs, Aiuto alla Chiesa che Soffre, sul suo profilo Twitter.
Secondo il quotidiano locale Premium Times anche un sacerdote italiano, Luigi Brena, che era stato catturato domenica scorsa, sarebbe stato liberato dalla polizia.
Padre Brena era stato prelevato in una regione del sud-ovest del Paese, nell’ Edo State.
Sarebbero invece ancora nelle mani dei rapitori padre Udo Peter della chiesa di San Patrizio a Uromi e Filemone Oboh del Centro di ritiro di San Giuseppe a Ugboha, nell’area del governo locale sudorientale di Esan.
Nessun luogo è sicuro nella Nigeria di Muhammadu Buhari.
Una violenza cieca e quotidiana, ora dichiaratamente di stampo jihadista, come quella di Boko Haram, ora di natura etnica o vincolata alla lotta per la terra, è la costante per il popolo nigerino. E per la Chiesa cattolica.
La strage nella chiesa di San Francesco Saverio a Sud Ovest del Paese, nel giugno scorso ha riacceso i riflettori del mondo occidentale sulla Nigeria.
Azione «vile e satanica» l’aveva definita il 6 giugno scorso Rotimi Akeredolu, governatore dello Stato di Ondo.
Questo ennesimo attacco in una chiesa cattolica (ma nel mirino ci sono spesso anche i musulmani), dove hanno perso la vita più di 50 persone, gli interrogativi sulla matrice degli eccidi di massa e sui mandanti reali si fanno pressanti.
È davvero possibile che si tratti di una lotta per la terra tra pastori Fulani semi-nomadi e agricoltori stanziali? O non è piuttosto una deliberata strategia di sterminio dei cristiani nigeriani?
«Se ci fosse una guerra dei musulmani contro cristiani, io la denuncerei e le direi che sto dalla parte della mia gente per difenderla.
Ma non c’è una guerra così, non la vedo». Ha detto in modo inequivocabile il cardinal John Olorunfemi Onaiyekan, 78 anni, arcivescovo emerito di Abuja, intervistato in esclusiva dal Corriere della Sera.
«A Nord questi gruppi criminali uccidono persone anche nelle moschee, durante la preghiera. La questione è molto più che una faccenda tra cristiani e musulmani».
Sono ancora parole del cardinale.
«I nostri cuori sono pesanti, la nostra pace e tranquillità (nella regione sud-occidentale del Paese ndr.) sono state attaccate dai nemici del popolo». A parlare è ancora Akeredolu.
«Non si tratta di una guerra civile, nè di una guerra etnica o di religione. Io direi piuttosto che è in corso una vera e propria “pulizia etnica”.
Per noi è chiaro che anche questa strage di massa è opera del gruppo dei pastori nomadi Fulani», ci dice al telefono un sacerdote della cittadina di Koko, Delta State al sud del Paese.
«Al momento pare non ci sia alcun movimento jihadista mobilitato dai pastori Fulani su basi etniche o comunitarie in Nigeria, e il movimento Fulani nello Stato del Borno si contrappone regolarmente alla fazione Shekau di Boko Haram.
Tuttavia è vero anche che alcuni individui e qualche famiglia si sono uniti all’Islamic State in West African Province».
Così si legge in un dettagliato report pubblicato due anni fa dall’Ispi, col titolo: Herders and Farmers in Nigeria: Coexistence, Conflict, and Insurgency.
Il testo descrive la travagliata coesistenza tra agricoltori e pastori in Nigeria.
Col passare del tempo la milizia armata dei Fulani (è da ribadire che non tutti i pastori Fulani sono criminali ma che la scelta di usare le armi è circoscritta ad un gruppo terrorista) ha cominciato a reagire alla supposta sottrazione di terre destinate inizialmente alla pastorizia, usando il potere dissuasore dei fucili e delle bombe.
Padre A. (che preferisce non essere citato per motivi di sicurezza) parla con rammarico della frequenza di attacchi in tutto il Paese e dell’«assoluta mancanza di una reazione da parte della comunità internazionale e del governo nigeriano».
«Sfortunatamente – dice – il mondo non sta reagendo come dovrebbe, e sembra che rimanga in silenzio di fronte ad una violenza che è quasi quotidiana».
Il mese scorso era stato rapito e poi liberato Samuel Kanu, pastore della Chiesa metodista: i cristiani sono particolarmente nel mirino, ma non si tratta di uno scontro religioso. Quanto piuttosto di una questione legata alla terra e al potere.
«Una supremazia», la definisce padre A. Sta di fatto che la gente «cerca riparo nelle foreste, le persone vengono barbaramente uccise o rapite con molta facilità e non c’è rispetto per la vita».
Già nel 2018 Amnesty International aveva pubblicato un report dal titolo: “Harvest to death, tre anni di scontri sanguinari tra pastori e agricoltori”.
Fino al 2016 i rapporti tra i due gruppi erano sereni e pacifici, poi qualcosa si è rotto ed è intervenuta una conflittualità che sta sfociando in veri e propri atti di terrorismo.
Tra il 2016 e il 2018 si è arrivati ad un numero di vittime pari a oltre 3600 persone e la conta dei morti è poi aumentata col tempo.
«C’era un rapporto cordiale tra di noi e una coesistenza pacifica», avevano raccontato ad Amnesty gli agricoltori intervistati in quel periodo, nello Stato di Kaduna, al Nord.
Poi, il conflitto violento, che dura tutt’ora e che appare manipolato dalle leadership locali.
«Il mondo è intervenuto in Ucraina perchè non interviene qui in Nigeria?», si chiede ancora padre A. che già un anno fa ci aveva raccontato: «la situazione qui è molto molto brutta e tesa.
Non c’è la minima sicurezza.
I terroristi non attaccano solo i cristiani, però è un dato di fatto che molti cristiani vengono uccisi e le case attaccate e distrutte. Noi non dormiamo perchè abbiamo paura, che Dio ci protegga!».