La missione affronta il dubbio con docilità e tenerezza.
Mi sono imbattuto recentemente nella lettura di un piccolo libro di una cinquantina di pagine, pubblicato da Einaudi nel 2008 con il titolo “Elogio dell’antropologia”.
L’autore, il famoso antropologo Claude Lévi-Strauss, riassume il proprio pensiero nella sua lezione inaugurale, quando il 5 gennaio 1960 gli venne affidata la cattedra di antropologia sociale al Collège de France.
Sono stato colpito non tanto dalla profondità della esposizione delle argomentazioni “scientifiche” ma anzitutto dalla delicatezza e dal profondo rispetto con cui illustra il «dubbio antropologico».
Che «non consiste solo nel sapere che non si sa nulla, ma nell’esporre risolutamente quel che si credeva di sapere, e persino la propria ignoranza, agli insulti e alle smentite inflitte, a idee e abitudini carissime, da idee e abitudini che possono contraddirle al più alto grado»
Il dubbio, quindi, «come atteggiamento filosofico per eccellenza».
Anche il missionario, quindi, dovrebbe poter affrontare il dubbio, con docilità e tenerezza.
Si tratta di affermazioni che possono dare ristoro anche a quanti, nella loro esperienza missionaria, accettano la fatica di confrontarsi, onestamente e con sincero spirito di fraternità universale, con realtà umane diverse dalla propria.
E non per questo da considerarsi “incivili” e “sottosviluppate” in base a parametri di civiltà e di sviluppo stabiliti dalle nostre comunque limitate conoscenze in tutti gli ambiti dell’esistenza umana;
Risulta purtroppo facile per noi occidentali, derivati dal mondo della colonizzazione, deridere o disconoscere il valore intrinseco delle espressioni artistiche delle culture africane: pittura, scultura, musica, danza.
O demonizzare la spiritualità e la religione africana al punto da identificare qualsiasi forma di rappresentazione sociale a cui viene dato un significato di sacralità rituale, come evento di stregoneria e perciò di espressione del maligno.
Proprio da questa convinzione errata prende forza l’idea diffusa nella nostra società che i popoli ancora oggi afflitti dalla povertà non possano liberarsi da questa falsa idea di “inferiorità” rispetto al mondo cosiddetto “sviluppato”.
Vien da sé chiederci se non sia davvero il caso di modificare i criteri non solo di giudizio, ma, ancora prima, di approccio verso le società che consideriamo primitive, per rapportarci con loro non da maestri.
Come afferma Lévi-Strauss «nel loro povero sapere consiste, tuttavia, l’essenziale delle conoscenze».
E non è forse questa essenzialità che ci avvicina di più alla comprensione del Vangelo per esserne annunciatori credibili?