Nella Siria distrutta dalla guerra, dove le comunità cercano di risorgere

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Siria è distruzione, guerra, rovine, profughi, sopravvissuti, terremoto, militari, jihadisti.

Siria è anche senso di impotenza, è incapacità di verificare con i propri occhi cosa sta accadendo.

Per chi l’ha visitata prima del 2011, l’anno che ha segnato il punto di non-ritorno per questo Paese, Siria è anche un agglomerato di interrogativi ai quali non si trova facilmente risposta: «Quel luogo sarà ancora in piedi? Quella persona sarà sopravvissuta alla guerra distruttiva?».

Ma per chi ha avuto il coraggio di andare, stare con, mettersi in ascolto, osservare, osare, Siria è anche – tutt’oggi – un luogo dove realizzare progetti, cercare e trovare speranza, percorrere un cammino nel deserto che «comporta di liberarsi dai nostri ingombri egoistici, dalle nostre durezze identitarie, dal nostro sovraccarico di pregiudizi, preconcetti e stereotipi».

Qui «ci è consentito di tenere con noi solo l’essenza fragile della nostra umanità e della nostra fede, per incontrare l’altro nella verità del nostro essere umani».

Sono parole del professor Gian Maria Piccinelli, docente di Diritto musulmano all’Università della Campania e profondo conoscitore di questo Paese, usate nella presentazione del libro “Sotto il cielo di Abramo. Diario dal deserto dei Siri”, scritto da Paolo Boncristiano.

Quest’autore non è né un medico, né un infermiere, né un muratore, ma un credente che ha scelto di fare di se stesso «una compagnia ai poveri, ai diseredati, a chi ha perso tutto a causa della guerra, a tutti coloro che Gesù ama tanto da riconoscersi in loro».

Anche per questo ha deciso di partire per la Siria, dove la prima volta è rimasto per tre mesi, fino a Pasqua 2022: il suo viaggio e il lungo soggiorno nel Monastero di Mar Musa, ad un centinaio di chilometri a Nord di Damasco e a 1.300 metri di altitudine, si sono trasformati in pagine che raccontano l’incontro con l’Assoluto in «un’esperienza di radicalità e di essenzialità del cristianesimo».

Non da vivere in maniera intimistica e individuale, ma da condividere in primis con la popolazione locale e poi dentro la storia della Chiesa: dall’arcivescovo di Lucca, diocesi dove Boncristiano abita, ha ricevuto un mandato, e dalla Fondazione Spazio Spadoni ha avuto l’incarico di sostenere la diocesi di Homs, il cui vescovo è da pochi mesi padre Jacques Mourad, monaco siriano di Mar Musa sin da quando padre Paolo Dall’Oglio la fondò nei primi anni Ottanta.

Così Paolo Boncristiano, sposo, padre e nonno, membro dell’Ordine secolare dei Carmelitani Scalzi, con il suo viaggio del 2022, poi replicato (anche se in forma più breve) nel marzo scorso, ha permesso che riprendesse vita il progetto agricolo che la comunità di Mar Musa aveva iniziato a Qaryatayn (cittadina con una presenza cristiana di duemila persone prima della guerra, oggi ridotte a 27 unità), con la messa a dimora di alberi per una superficie di 25 ettari, tutti strappati alla radice dalla furia jihadista che ha anche raso al suolo il monastero locale di Mar Elian.

«Questa cittadina semidistrutta – spiega Boncristiano – è stato l’obiettivo primario della mia missione in Siria.

Il desiderio di padre Jacques è quello di ristabilire un’attività agricola che da un lato consenta alle persone di avere un salario e dall’altro di ricreare un’oasi di pace dove gli abitanti di Qaryatayn, cristiani e musulmani insieme, possano trovare un riferimento spirituale, come accadeva in passato».

La presenza cristiana in Siria è ridotta all’osso non solo qui.

Ma chi è rimasto lo ha fatto con consapevolezza: «Le persone non sono solo afflitte dalla povertà – racconta Boncristiano – ma anche da una distruzione fisica e psicologica.

Coloro che hanno scelto di rimanere hanno rischiato la vita per tutti gli anni della guerra, ma spesso sono stati protetti anche dai loro vicini musulmani. I quali a volte hanno anche pagato questo gesto con la loro vita».

Pure a Maalula, la città dove orgogliosamente i cristiani locali parlano ancora l’aramaico, la presenza dei fedeli di Gesù è calata sensibilmente. Boncristiano racconta di aver incontrato proprio qui abuna Tawfic al Eid, padre melchita cattolico, priore del Monastero di San Sergio la cui chiesa risale al IV secolo, che ha resistito in questo luogo per tutti gli anni della guerra ed ha visto emigrare moltissimi cristiani, soprattutto giovani.

A chi gli chiede un consiglio in merito a rientrare o meno, abuna Tawfic risponde: «Tornate solo se lo fate per Gesù Cristo, per non far morire la presenza delle comunità cristiane.

Ma se non è questo il motivo, vi consiglio di non tornare» perché – chiosa Boncristiano – lì non c’è proprio più nulla «ed i giovani non hanno un futuro per vivere dignitosamente».

Insomma, essere cristiani in Siria nel 2023 significa seguire una ben precisa vocazione: significa vivere per Gesù Cristo, senza dubbio; significa essere un germoglio, un inno alla speranza.

Proprio come lo sono quei piccoli ulivi piantati nella cittadina di Qaryatayn che cercano di mettere nuovamente radici.