Pochi anni ci separano da una situazione climatica di non ritorno, quando le città costiere come Dacca in Bangladesh, Manila nelle Filippine, Bangkok in Thailandia, Alessandria in Egitto, e Venezia, saranno già semi-sommerse dall’innalzamento del mare.
Per evitare un’apocalisse ambientale un gruppo di climatologi ha lanciato Mission 2020, una Campagna di sensibilizzazione globale per rallentare le emissioni di CO2 e contenere l’aumento della temperatura media del pianeta, del livello dei mari e l’acidificazione degli oceani.
Secondo i loro calcoli il mondo ha ancora un “credito” di 150-1050 giga-tonnellate di CO2 (cioè può bruciare ancora quella quantità di combustibili fossili): dopo, il disastro sarà inevitabile.
Il tempo per cambiare rotta? Sino al 2020.
Eppure mentre gli uragani uccidono masse di civili, uomini politici e scienziati assumono ancora pericolose posizioni negazioniste.
Porto Rico, Cuba, Repubblica Dominicana, Isole Vergini – quasi tutti i Caraibi insomma – ma anche la Florida ed il Texas, due tra le regioni più ricche degli Stati Uniti.
La stagione degli uragani atlantici targati 2017 sembra non finire mai.
Prima Harvey, poi Irma, successivamente Maria, ma in tutto sono già stati 13 mentre il numero delle vittime si è attestato ad oltre un centinaio.
«Se non è cambiamento climatico questo, non so cosa si possa definire tale», ha dichiarato in piena emergenza Irma il sindaco di Miami, Tomás Pedro Regalado, del Partito repubblicano, come anche il presidente Usa, Donald Trump, che invece sull’argomento continua a mantenere un’assurda posizione negazionista, la stessa che lo ha indotto ad abbandonare l’accordo globale sul clima di Parigi.
Ma bastano le cifre Onu riprese di recente da monsignor Ambrogio Spreafico, vescovo di Frosinone, secondo le quali «sono già 60 milioni i rifugiati ambientali», ovvero uomini, donne e bambini costretti a lasciare le loro case per la distruzione causata dall’inquinamento da combustibili fossili, in primis carbone e petrolio.
Nel 2015 erano la metà ed il numero tende a raddoppiare in modo esponenziale.
Un argomento, quello dei cambiamenti climatici e degli enormi costi per le comunità, molto caro a papa Francesco che il 24 maggio 2015 ha scritto una profetica enciclica come Laudato Si’, un vero inno della responsabilità ambientale.
Profetica perché in essa si legge, tra l’altro, che «lo scioglimento dei ghiacci polari e di quelli d’alta quota potrebbe accentuare ancora di più l’emissione di biossido di carbonio.
A sua volta, la perdita di foreste tropicali peggiora le cose, giacché esse aiutano a mitigare il cambiamento climatico.
Da Dacca in Bangladesh, a Manila nelle Filippine, dalla thailandese Bangkok all’egiziana Alessandria, oltre alle già citate Miami e Venezia, sono decine le grandi città a rischio nel mondo perché costruite su un mare che reclama sempre più spazio per i motivi spiegati nella sua Laudato Si’ da papa Francesco.
Che, non a caso, proprio nei giorni di Irma è tornato sul tema con forza: «Sui cambiamenti climatici i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti e per combattere i quali gli scienziati ci dicono chiaramente la strada da seguire, l’uomo è testardo e non vuole vedere. Ognuno ha la sua responsabilità morale, i politici hanno la loro e la storia giudicherà le loro decisioni».
Trump avvisato mezzo salvato verrebbe da dire, parafrasando un celebre proverbio, ma chissà se il presidente Usa ascolterà mai il Santo Padre?
Una recente ricerca dello scienziato Antonio Nobre, dell’Istituto brasiliano della ricerca spaziale, mette infatti in correlazione diretta proprio il disboscamento dell’Amazzonia con la siccità di cui soffre il Brasile negli ultimi anni.
Nello studio “Il futuro climatico dell’Amazzonia”, Nobre snocciola dati da far paura: «Negli ultimi 40 anni abbiamo segato 42 miliardi di alberi, una media di 2mila al minuto ed il problema è che ogni albero tagliato incide pesantemente sul clima».
Il motivo è semplice: «Ogni albero antico produce qualcosa come mille litri di acqua al giorno e l’aria umida che prima veniva esportata nel Sud-est del Brasile non c’è più, perciò quella zona si sta trasformando in un deserto».
Per non dire di uno studio recente della NASA, che dimostra come negli ultimi 10 anni le principali riserve di acqua dolce che oggi garantiscono la sopravvivenza di 2,5 miliardi di esseri umani – il resto arriva dalle piogge – si stiano esaurendo.
«Le riserve d’acqua sono limitate e, complice il riscaldamento globale, se non se ne razionalizzerà il consumo, sono destinate all’esaurimento» ammonisce l’agenzia spaziale Usa.
Non è un caso se l’H2O è stata ribattezzata Oro Blu, un parallelismo semantico con il petrolio/Oro Nero che tanti conflitti ha scatenato nell’ultimo secolo ma che, grazie alle energie alternative, sembra destinato a cedere il passo proprio all’acqua come casus belli futuro.
Oltre all’Africa, a detta degli analisti, rischi di scontri intorno a falde, fiumi e laghi sarebbero prossimi in Sud America, Medio Oriente e persino nell’Est Europa.
L’occupazione di Pechino del Tibet, soprannominato la “Torre dell’Acqua” asiatica, avrebbe del resto come motivazione principale proprio l’acqua, che dalla patria dei monaci rifornisce i principali fiumi cinesi.