L’Uganda sta offrendo all’Europa una straordinaria lezione di umanità. Questo piccolo Paese africano, nel cuore della Regione dei Grandi Laghi, con una superficie di 241.038 Kmq – vale a dire la stessa dell’Italia senza Sicilia, senza Sardegna e le isole minori – ospita attualmente 1.276.208 profughi provenienti dai Paesi limitrofi. Due terzi arrivano dal vicino Sud Sudan, stretto nella morsa di una sanguinosa guerra civile che ha causato in questi anni morte e distruzione. Il resto proviene dalla Repubblica Democratica del Congo, dal Burundi, dalla Somalia, dall’Eritrea, dal Sudan e dall’Etiopia. Da rilevare che l’Uganda ha una popolazione di oltre 44 milioni di abitanti e un Pil, stimato attorno ai 28 miliardi di dollari. Per avere un confronto con l’Italia, basti pensare che la regione Campania ha un Pil superiore ai 110 miliardi di dollari. Da rilevare che vi è una crescente preoccupazione per l’andamento del debito pubblico ugandese, che è cresciuto vertiginosamente passando da 1,9 miliardi di dollari nel 2008 a oltre 11 miliardi di dollari a fine 2017, circa il 38,4% del Pil. Il principale timore degli analisti internazionali è che i prestiti ricevuti dall’estero non siano più sostenibili. Nonostante dunque l’Uganda sia un piccolo Paese, peraltro senza sbocchi sul mare, sta affrontando a testa alta la sfida migratoria. Hilary Onek, ministra ugandese per gli aiuti umanitari, la gestione dei disastri e i rifugiati, ha dichiarato pubblicamente che il suo Paese “ha continuato a tenere le porte aperte ai profughi sulla base della tradizionale ospitalità africana e del principio secondo cui non scacciamo chi si rifugia qui da noi in cerca di salvezza”.
Significativo è quanto sta avvenendo nella regione nordoccidentale del West Nile. Lì vive una popolazione residenziale di circa due milioni e 180mila residenti che pacificamente hanno accolto e continuano ad accogliere i rifugiati sud sudanesi (oltre un milione nel 2018). È una straordinaria lezione di umanità da una delle tante periferie del mondo, che dovremmo fare nostra e sostenere. Si tratta, in sostanza, di un modello di integrazione volto a conciliare gli interventi umanitari con quelli dello sviluppo economico. L’esatto contrario di quanto avviene in molti Paesi occidentali in cui i rifugiati vengono considerati corpi estranei, veri e propri antagonisti nel mercato del lavoro, nell’utilizzo delle risorse e nella gestione dei servizi. Sta di fatto che agli stranieri ospitati in Uganda per ragioni umanitarie è concessa, almeno sotto il profilo normativo, la possibilità di svolgere un’attività lavorativa e di scegliere il proprio luogo di residenza. Ad ognuno dei profughi viene assegnato un appezzamento di terra su cui coltivare e costruire una casa ed è inoltre concesso dal governo di Kampala l’accesso al sistema sanitario e a quello scolastico. Lungi da ogni retorica, lo spirito che anima sia i rifugiati come anche la società civile ugandese, le Chiese cristiane (tra le quali spicca quella Cattolica) e le tante Organizzazioni non governative, si manifesta nell’alto tasso di resilienza e nella crescente sostenibilità delle iniziative avviate, parole chiave di una solidarietà in netto contrasto con l’ossessione compulsiva per il controllo dei confini e la sicurezza in cima all’agenda di molti governi europei.
Foto: Beraud/Bsip