Tragiche vicende quasi quotidianamente si consumano nel Mar Mediterraneo, diventato cimitero di migranti. Non si fa in tempo ad archiviare una crisi, come quella della Sea Watch 3, che una nuova strage si compie con il naufragio di due barconi lo scorso 25 luglio e la morte di circa 150 persone. Ma ecco una nuova emergenza, umanitaria, politica e diplomatica, si apre con le navi Open Arms e Ocean Viking in cerca di un porto sicuro per le centinaia di naufraghi a bordo. Il rischio è che si smarriscano non solo i più elementari principi di umanità, ma anche le regole giuridiche, che pur esistono, anzitutto a livello internazionale.
Riguardo al salvataggio, varie convenzioni internazionali, delle quali l’Italia è parte contraente, stabiliscono un obbligo di soccorso in mare dei naufraghi. Esso è previsto nell’articolo 98 della Convenzione delle Nazioni Unite di Montego Bay sul Diritto del mare del 10 dicembre 1982, dalla Convenzione di Londradell’1 novembre 1974 sulla sicurezza della vita umana in mare (SOLAS), più volte modificata, e dalla Convenzione di Amburgo del 27 aprile 1979 (e successivi emendamenti) sulla ricerca e soccorso in mare (SAR). Sebbene il fenomeno migratorio determini oggi una dimensione imponente dell’opera di soccorso in mare – forse impensabile al momento della elaborazione di tali convenzioni – ciò non può escludere il dovere di soccorrere i migranti, in quanto essi si presentano obiettivamente come naufraghi in situazioni di estremo pericolo. Le suddette convenzioni comportano per gli Stati parti obblighi sia di soccorso che di cooperazione reciproca; e non vi è dubbio che tali obblighi siano frequentemente violati da più parti, come dall’Olanda e dalla Spagna, cinicamente indifferenti agli appelli di aiuto provenienti dalla Sea Watch 3 e dalla Open Arms, aventi la loro rispettiva nazionalità. Ma l’inadempimento di tali Stati – da condannare fermamente – non può valere come giustificazione degli altri Stati parti, quale l’Italia, che restano tenuti a onorare i loro obblighi di soccorso.
Obblighi internazionali dell’Italia
Anche sul piano della nostra Costituzione, il rispetto delle convenzioni in parola si impone persino al legislatore. Ai sensi dell’articolo 117, comma 1, della Costituzione, infatti, la potestà legislativa è esercitata, sia dallo Stato che dalle regioni, nel rispetto, tra l’altro, dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.
Le convenzioni delle quali l’Italia è parte contraente si pongono, pertanto, a un livello gerarchicamente superiore rispetto alle leggi ordinarie, le quali, se sono in conflitto con dette convenzioni, violano il precetto costituzionale dell’articolo 117, comma 1, e sono suscettibili di essere dichiarate costituzionalmente illegittime dalla Corte costituzionale. Seri dubbi, sotto questo aspetto, sono sollevabili riguardo al Decreto sicurezza bis (decreto legge 14 giugno 2019 n. 53): nel promulgare la legge di conversione, l’8 agosto scorso, il presidente della Repubblica Mattarella, con riferimento all’inasprimento delle sanzioni per il divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane, ha manifestato le sue perplessità per il fatto che nessuna distinzione sia prevista «quanto alla tipologia delle navi, alla condotta concretamente posta in essere, alle ragioni della presenza di persone accolte a bordo e trasportate» e ha ribadito la necessità del rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia, in particolare del dovere di soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo prescritto dal citato articolo 98 della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare. Di particolare interesse è anche il decreto del 14 agosto scorso, con il quale il TAR del Lazio ha sospeso il provvedimento del ministro dell’Interno dell’1 agosto, che dispone il divieto di ingresso, transito e sosta della nave Open Arms nel mare territoriale nazionale, considerando, tra l’altro, che il ricorso proposto dalla Foundation Proa (Pro – Activa Open Arms) per l’annullamento di tale provvedimento non appare del tutto sfornito di fondamento giuridico anche per «violazione delle norme di diritto internazionale del mare in materia di soccorso».
Soccorso in mare
Il dovere di soccorso in mare ha una rilevanza determinante anche sul piano penale, poiché costituisce una causa di giustificazione della violazione di norme penali, come l’articolo 337 del Codice penale, il quale prevede il reato di resistenza a pubblico ufficiale, ipotizzato nei confronti della comandante della Sea Watch 3 Carola Rackete per avere disatteso il divieto di entrare nei porti italiani. La Gip di Agrigento, Alessandra Vella, infatti, nell’ordinanza del 2 luglio scorso ha rifiutato la richiesta di arresto della Rackete poiché ha giudicato giustificata, ai sensi dell’articolo 51 del Codice penale, la sua decisione di entrare nel porto di Lampedusa, malgrado il suddetto divieto, in quanto la sua condotta rappresentava l’adempimento del dovere di soccorrere i naufraghi in mare. L’ordinanza sottolinea correttamente che detto dovere – alla luce delle convenzioni internazionali sopra ricordate – non si esaurisce nella presa a bordo dei naufraghi, ma comprende la loro conduzione nel porto sicuro più vicino.
In proposito va ribadito che deve categoricamente escludersi che porti sicuri possano individuarsi in Libia. Sprofondata in una situazione di piena anarchia e di violenza generalizzata a seguito dell’aggressione subita nel 2011 da parte di alcuni Paesi occidentali, la Libia è ormai in preda a bande armate, compresa la Guardia costiera, che non risponde ad alcuna autorità pubblica ed è dedita non al soccorso, ma alla cattura dei naufraghi e fuggiaschi da riportare in luoghi di prigionia e di tortura. Ed è scandaloso che già il precedente governo italiano, con lo scellerato accordo del 2 febbraio 2017 tra Gentiloni e Serraj, abbia instaurato con essa rapporti di collaborazione rendendosi complice dei suoi crimini.
Ridistribuzione dei migranti
Il dovere di soccorso in porti sicuri ha per conseguenza che gli Stati debbano aprire i loro porti ai naufraghi, ma non implica un dovere di accoglienza nel proprio territorio. Nell’ambito dell’Unione Europea un diritto di asilo o di protezione internazionale spetta, in principio, ai soli cittadini di Stati terzi i quali, nel Paese di origine, sarebbero soggetti a rischio di persecuzione, tortura, trattamenti inumani o degradanti. Ai sensi del cosiddetto regolamento Dublino III (regolamento UE n. 604/2013 del 26 giugno 2013), peraltro, lo Stato membro competente a esaminare le domande di protezione internazionale è, in primo luogo, quello le cui frontiere siano state illegalmente varcate, per via terrestre, marittima o aerea, dall’interessato. Ciò determina una forte pressione sui Paese europei che si affacciano sul Mar Mediterraneo, tanto più che, in base alla norma di Diritto internazionale del non respingimento, in nessun caso lo Stato di primo ingresso può rinviare l’interessato verso un Paese nel quale correrebbe il rischio di essere sottoposto a persecuzioni o a violenze e che, durante la procedura di esame della domanda, il richiedente ha diritto a rimanere in tale Stato. La pressione sarebbe certamente attenuata – e agevolata l’accoglienza dei migranti aventi titolo alla protezione internazionale – se trovasse effettiva attuazione il principio di solidarietà (e quello, che ne costituisce un corollario, di equa ripartizione della responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario), il quale governa la materia in esame. Tale principio imporrebbe meccanismi obbligatori di ricollocazione e di redistribuzione dei migranti tra gli Stati membri, che questi, invece, non appaiono disposti ad accettare. L’atteggiamento egoistico di tali Stati mette a repentaglio la salvezza di vite umane, drammatizza ancor più la rappresentazione dei flussi migratori, fornendo alibi a politiche governative di chiusura dei porti, tradisce quel principio di solidarietà che, declinato in molteplici varianti, permea di sé l’intera costruzione europea e costituisce la stessa ragion d’essere del progetto europeo.