La Bolivia di don Diego Dolci, tra credenze precolombiane e fede genuina

Storia di un fidei donum rientrato a Bergamo

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«Riusciamo a comprendere il miracolo della vita solo quando lasciamo che l’inatteso accada».

È un aforisma di Paulo Coelho e riflette in pieno l’esperienza di don Diego Dolci, classe 1973, fidei donum della diocesi di Bergamo, rientrato dalla Bolivia a metà gennaio 2023.

Era stato ordinato presbitero già da 20 anni quando il vescovo, nel 2019, gli ha proposto di partire in missione.

«Non me lo aspettavo. Da una parte, ero stupito; dall’altra, ho accolto volentieri l’invito, anche perché è bello vedere come viene vissuta la fede oltre i propri confini».

Nel caso specifico, la sua è stata una scoperta al contrario.

«Uno si immagina che, nei luoghi di missione, le persone credano di più rispetto a noi: in Bolivia, invece, c’è più una fede legata ai bisogni, che risente anche molto delle credenze precolombiane e dei riti magici».

Ma anche questo fa parte delle sfide dei missionari, Chiesa bergamasca compresa che, l’anno scorso, ha celebrato 60 anni di presenza a La Paz.

«Nel 1962 non c’era nulla; poi, è stata creata la parrocchia di Munaypata, situata a 4.000 metri sull’Altipiano boliviano e a poche ore dal confine con il Perù».

Una zona densamente popolata dove l’80% della gente vive di economia informale (piccolo commercio e trasporti) e la cui piaga maggiore, oltre alla forte corruzione dei politici, è l’alcolismo, diffuso fra le diverse fasce d’età.

«Per fare un esempio, poiché nel Paese si trovano molti siti di estrazione mineraria (litio, ferro, zinco, rame, argento), con il pretesto di offrire alcool al dio del sottosuolo, lo bevono anche i minatori».

Don Diego ha vissuto lì prevalentemente durante il periodo della pandemia, tra celebrazioni annullate e distanze imposte.

Eppure, ciò che più gli manca ora che è a Bergamo è «il senso di vicinanza dei boliviani, da cui anche le nostre Chiese dovrebbero imparare».

Il sacerdote ricorda infatti che, all’aeroporto, venne «accolto come il “padre” (con i balli e la banda del collegio) e che, finita l’emergenza, si andava ad incontrare la gente dove viveva.

Perfino le esequie si celebravano nelle case; si entrava nelle loro esistenze, anche nel momento del dolore».

Il miracolo di quella notizia inattesa continua, quindi, a compiersi ogni giorno, anche al suo rientro in Italia: «mi sento cambiato, sono più libero e più accogliente».