Ha trascorso 41 anni in Kenya, prima professione nel 1970, prima partenza per l’Africa nel 1976, destinazione Marsabit, nel Nord del Kenya, nel deserto del Chalbi. E’ questa la carta d’identità missionaria di suor Ornella Monti, comboniana dalle origini lombarde.
Ha passato 41 anni nel deserto. Cosa l’è mancato di più?
«L’acqua, come a tutti! (ride) Ma poi neanche tanto, nel senso che impari a gestirti. Vivere con le popolazioni nomadi in movimento con i loro pascoli è stata un’esperienza unica.
Ho iniziato andando fuori anche se non sapevo la lingua, uscivo per essere presenza tra loro, per capire come vivevano, i momenti di festa e di dolore. E così piano piano mi sono inserita».
Come missionaria, cos’è che fa la differenza?
«La Parola di Dio fa la differenza, e non è una frase fatta, mi creda. Anche nel deserto, dove c’è bisogno di tutto, dove qualsiasi aiuto che porti migliora la vita, alla base, che fa fare il salto alle persone è la Parola di Dio».
L’ha incontrato?
«L’ho visto con i giovani, con i maestri, le famiglie…c’è la tradizione africana e c’è quello che porta il Vangelo, quello che Cristo propone.
Ho visto rapporti rifiorire, famiglie che hanno trovato la gioia di vivere assieme, che hanno ammesso errori e cambiato direzione. Il Vangelo ci libera dall’egoismo, dal pensare solo a noi stessi o dal dire “si è sempre fatto così”».
Per esempio?
«Per esempio la donna in Africa. Nel mondo rurale porta tutti i pesi però non è considerata. La donna manda avanti tutto ma dipende in tutto dal marito: non gestisce i soldi, non prende nessuna decisione. Gesù Cristo non propone questo!».
E per gli uomini?
«Ho visto cambiare uomini dediti al bere. In Africa gli uomini quando non lavorano si trovano con gli amici e spesso finiscono col bere, dandosi alla vita dissoluta.
Negli incontri con le famiglie, in una tappa leggevamo il passo di S. Paolo dove si dice “gli ubriaconi non erediteranno il regno dei cieli”. Da lì qualche partecipante iniziava a cambiare stile di vita».
Immagino che le sue “periferie” fossero diverse da quelle di oggi…
«Se il deserto può essere considerato “periferia”, allora la mia periferia a Marsabit non era certo comoda. Alle 9 di sera si spegneva il generatore e la notte era notte.
La prima sera la mia consorella anziana mi ha lasciato l’acqua per la doccia, poi gentilmente mi ha detto che il secchiello doveva bastare per tutto il giorno.
Usavamo con parsimonia la bombola di gas per cucinare, l’alternativa era la cucina a legna, che nel deserto aumentava di qualche grado la temperatura che già c’era (e ride)».
C’è Dio nel deserto?
«Eccome se c’è. Ovunque! Nella natura, bellissima, nelle persone che incontri che si fermano a indicarti la direzione, nei bambini che pascolano i cammelli (e hanno la responsabilità di non perderli) o le capre.
Ti fermi con loro, ne munge una e ti offrono il latte. E poi l’accoglienza: quando ero stanca e assetata sempre qualche donna ti accoglieva nella sua capanna. Io per loro non ero nessuno eppure mi hanno accolto, sempre. Mi hanno dissetato, e nel farlo mi hanno spiegato la loro vita».
Cos’ha imparato?
«Che in Africa siamo ospiti, non dobbiamo dimenticarlo, anche noi missionari. Non devi fare il padrone, devi rispettare i loro ritmi, il loro modo di vivere».
Dopo il Kenya adesso parte per l’Uganda. Stanca?
«Nooo, parto con lo stesso entusiasmo del 1976, la prima volta che ho messo piede in Kenya. Vado con le stesse motivazioni, ovvero essere semplice strumento dell’amore di Dio».
(Questa intervista è stata pubblicata nel numero di febbraio di Popoli e Missione).