La guerra non è finita in Siria. Nonostante i riflettori della comunità internazionale siano stati spenti e l’attenzione distolta dal Paese del Medio Oriente andato in pezzi nel 2011, non tutta la Siria è pacificata. E non tutti i civili sono al sicuro.
La enclave di Idlib, provincia settentrionale del Paese per anni occupata dai ribelli, ancora sfugge al controllo di Assad. E l’esercito continua a colpire dall’alto, per riprendersi in mano l’intera zona, facendo vittime tra i civili.
Il Daily Sabah scrive che il fuoco di artiglieria del regime di Bashar al-Assad sabato scorso ha colpito ancora uccidendo otto persone, tra cui sei bambini.
Le Nazioni Unite lo hanno definito «il peggior attacco da quando è stato interrotto il cessate-il-fuoco a marzo scorso».
La comunità internazionale usa l’arma della dissuasione, che consiste essenzialmente nelle sanzioni economiche mirate contro il regime e prorogate dall’Ue per un anno, ma che incidono soprattutto sul popolo siriano.
Le sanzioni dovrebbero indurre Assad a cessare l’offensiva militare, ma così non e anzi, non sembrano costituire un grande deterrente finora.
Il Patriarcato siriano ha condannato più volte le sanzioni economiche contro la Siria, culminate nel cosiddetto “Caesar Act”, dicendo che sono ingiuste e vanno rimosse.
Patriarchi e vescovi cattolici riuniti dal 18 al 20 maggio ad Aleppo, hanno chiesto di intervenire sul versante economico. Joseph Tobji, arcivescovo maronita di Aleppo, come riporta Fides, ha spiegato che «il popolo siriano adesso ha come primo problema quello di sopravvivere alla fame, causata anche dalle sanzioni».
Resta il fatto che una parte di popolo siriano (quello sotto il regime di Assad) soffre la fame per motivi economici e di embargo, ma un’altra ristretta parte di popolo siriano (ancora contesa tra ribelli e regime), è ostaggio dell’esercito e muore per i colpi di artiglieria mirati, oltre che per l’assenza totale di aiuti umanitari.