«Laggiù, mi chiamano padiri, un mix tra padre-don-prete-fratello». Una sola parola per spiegare in semplicità tutto ciò che don Giovanni Piumatti, fidei donum della diocesi di Pinerolo, è stato per la sua gente, nel Nord Kivu, in 50 anni di missione.
Ma la realtà è molto più complessa, a partire dalla situazione in cui versa quella zona ad Est della Repubblica democratica del Congo, ai confini con Rwanda e Uganda.
Dove i disordini e i massacri perpetrati dai gruppi armati sono all’ordine del giorno, con «sparatorie improvvise, colpi di fucile di notte e razzie, nel vergognoso silenzio dell’Occidente».
In quel tratto della foresta tropicale, a 200 chilometri dalla capitale, la sfida non è costruire, ma avere la forza e la pazienza di ricostruire ancora.
Padre Piumatti, classe 1938, è arrivato in Africa, a Lukanda, nel 1971, in piena atmosfera del Sessantotto, spinto dall’entusiasmo della stagione post conciliare.
È sempre rimasto nella diocesi di Butembo-Beni, ma «nel 1994, circa 20 famiglie decisero di emigrare, per un problema di sovrappopolazione e di carenza di terreni».
Lui, insieme ad altri volontari italiani, le accompagnò, rivivendo in qualche modo l’esperienza di Abramo. Sorse Muhanga e, successivamente, con le forze della gente del posto e gli aiuti di amici, la scuola, la parrocchia, il dispensario, la maternità, il mulino, la falegnameria, l’officina.
«Un villaggio che non ha potuto nascere gradualmente perché invaso quasi subito, tra il 1995 e il 1997, dai profughi ruandesi. Una crescita disordinata, ma un’esperienza umana molto bella».
La paura di quegli attacchi continui la puoi solo immaginare; lui preferisce raccontare la generosità delle «famiglie che accoglievano altre famiglie. Nessun aiuto internazionale; dopo la morte di Mobutu, nelle capanne divenute campi rifugiati, ho capito cosa significhi condividere una casseruola o una coperta».
Principalmente, la loro attività era cercare campi; «a 1.700 metri di altezza, i terreni sono molto fertili e si possono piantare patate, fagioli, mais e frumento ma la guerriglia, dal 2000 in poi, ha disturbato e portato via i raccolti».
Nel tentativo di ridare valore all’agricoltura, pur nelle difficoltà, si cercava di mangiare meglio. «La manioca è il primo prodotto, ma se non hai i fucili tra i piedi, è anche fattibile produrre carote che hanno più vitamine», dice il missionario. «Quando eravamo fuggitivi, la riserva di cibo durava meno; ora, le multinazionali si prendono pure le terre, con monocolture di 100 chilometri e foreste disboscate».
Il fatto è che «la guerra ostacola», così come le ragioni che portano ad essa. «La zona del sottosuolo è scandalosamente ricca e sfruttata, ma è il Rwanda a risultare il primo esportatore di coltan, senza avere neanche una miniera».
Si fa fatica a sottrarre i ragazzi ad un meccanismo che li costringe a «cercare oro per gli altri».
Si assiste impotenti alle file di camion che arrivano da Goma per il legname, rovinando per giunta una strada di 43 chilometri, resa agibile dopo anni a colpi di zappa e sudore. Si sopporta un governo fantoccio, oltre all’indifferenza del mondo.
Eppure, nonostante tutto, «a Muhanga, la gente continua a costruirsi concretamente la propria vita, con dignità, senza piagnistei e arrabbiature. E i bambini sono gioiosi, anche se vedono ogni giorno le tragedie e il sangue».
Ma il bagaglio che più ingombra nel cuore, e rende più faticosa la nuova vita, è il senso di comunità che padiri Giovanni si è portato dietro: «eravamo un gruppo, una famiglia in ascolto, una casa aperta dove si sta insieme e si fa ciò che c’è da fare».
Da agosto 2020, vive in «una bella stanza» del Seminario della sua diocesi, quella dedicata ai preti anziani, e si chiede:
«Quali prospettive di servizio per i fidei donum rientrati? Siamo piccoli eroi, bravi, santi, ma possiamo dire un pensiero? Possiamo ancora capire le “vostre” dinamiche, poiché siamo stati tanto tempo fuori dall’Italia? O, ormai, siamo solo scarti, uno dei volti di questa fascia d’età? In Africa, quando c’era un problema, usavano dire “andiamo a chiedere al vecchietto”».
Un fiume in piena, che sorge da «un debito con l’Africa» e che sfocia nella richiesta di un “mezzo africano”: «dateci gli spazi, moltiplicate le occasioni di incontro, non per un pranzo o perché siamo stati buoni, non solo per uno sfogo o un racconto, ma per pensare e costruire insieme una società diversa».