Il nemico dell’Eritrea è l’Eritrea stessa

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«Il problema, in Eritrea, non è la guerra. Il problema era e resta la dittatura, che schiavizza il nostro popolo da oltre vent’anni e che ruba la vita ai nostri giovani. E’ assurdo ostinarsi a non vedere questa realtà».

A scriverlo è il Coordinamento Eritrea Democratica, composto da decine di persone della diaspora eritrea in Italia (a Roma e Bologna), che da anni si battono per far emergere le tante verità sull’atroce regime di Isaias Afewerki. 

A far notizia negli ultimi mesi è stata la ritorsione del regime contro la Chiesa: 22 ospedali cattolici chiusi, le strutture sequestrate dallo Stato, gli ammalati  sottratti a quelle cure.

Ma nel mirino di Asmara ci sono anche 50 scuole e 100 asili gestiti dalla chiesa locale. E’ notizia di ieri che sette scuole di istruzione secondaria, gestite da organizzazioni religiose (cristiane e musulmane), siano state con la forza sottratte ai legittimi proprietari e affidate allo Stato.

Così, a chi attribuiva alla ventennale guerra con l’Etiopia e al conseguente embargo durato nove anni (rimosso dall’Onu a novembre del 2018), il principale elemento destabilizzante per il Paese, è stato chiaro che il nemico non viene da fuori ma da dentro.

Il nemico dell’Eritrea è l’Eritrea. O meglio il potere che la rappresenta.

Lo sanno bene le diplomazie occidentali che però continuano ad ignorare i moniti delle Nazioni Unite e i rapporti della varie agenzie Onu su Afewerki. 

«Il regime in questo momento è funzionale agli interessi della politica occidentale nel Corno d’Africa. Sono interessi  economici, di contenimento dei flussi di profughi. Interessi geo-strategici per la posizione dell’Eritrea», spiega il giornalista Emilio Drudi, esperto di Corno D’Africa e di storia del colonialismo italiano.

Drudi collabora con il Coordinamento Eritrea Democratica e si batte per una informazione corretta.

Le prime “rivelazioni” internazionali sulle atrocità del despota, arrivano il 26 giugno 2015: nelle 484 pagine scioccanti del “Report of the commission of inquiry on human rights in Eritrea, si alternano testimonianze, disegni delle torture subite (che faranno il giro del web) ed analisi di esperti della Commissione d’inchiesta sui diritti umani. L’accusa al regime è di crimini contro l’umanità.

Da quel momento in poi il mondo non potrà più fingere di non sapere.

«Il governo di Asmara è responsabile di clamorose e diffuse violazioni dei diritti umani – scrive anche il Coordinamento – che hanno creato un clima di paura in cui il dissenso è represso, un’ampia porzione della popolazione è soggetta a reclusioni e lavoro forzato».

Di formazione marxista (per questo ideologicamente “accettabile” per gran parte delle formazioni di estrema sinistra in Europa) Afewerki, militante del Fronte per la liberazione dell’Eritrea, è uno dei padri dell’indipendenza dall’Etiopia, avvenuta nel 1991.

La sua storia somiglia alle tante storie di personalizzazione del potere e trasformazione delle rivoluzioni in spietati regimi, che attraversano l’Africa ma anche l’America Latina negli anni Novanta.

Ben presto anche in Eritrea si dà il via alla militarizzazione permanente della società, con la progressiva chiusura del Paese al resto del mondo e la negazione dei diritti civili.

Il “Che Guevara dell’Eritrea” si rivela uno spietato dittatore che fa fuori piano piano anche i leader dell’indipendenza a lui contrari e tutti coloro che si oppongono al suo potere personale.

«Nel 1998 – ci spiega Emilio Drudi – con la scusa della guerra contro l’Etiopia, il paese viene ulteriormente militarizzato. La Costituzione (ottima sulla carta) da allora è lettera morta. Siamo in guerra, il Paese deve rimanere mobilitato.

Nei primi due anni il conflitto provoca 80mila morti. Nel 2000 ci sarà una tregua d’armi ad Algeri, per capire a chi appartiene il villaggio di Badmè, pomo della discordia. L’arbitrato internazionale stabilisce che è dell’Eritrea, ma lungo la linea di confine ci sono altre situazioni simili».

Da quel momento in poi, e fino alla firma della pace di Gedda il 16 settembre 2018, prosegue una guerra non-guerreggiata, a bassissima intensità, che giustificherà riforme liberticide in politica estera ed interna. Come il “servizio nazionale” a tempo indeterminato per servire la patria in armi.

«La mia famiglia è rimasta ad Asmara – racconta all’agenzia Dire Asmeret, una ragazza di 22 anni rifugiata in Etiopia – Sono partita da sola perché se qualcuno lo avesse scoperto avrei potuto essere incarcerata. Sono orgogliosa del mio Paese, amo l’Eritrea ma il sistema è ingiusto».

La sua famiglia rimasta in patria potrebbe subire persecuzioni di ogni genere da parte delle forze di sicurezza, dal momento che «alcuni parenti hanno svolto attività politica, e per questo sono in carcere. Altri invece sono morti».

La carcerazione arbitraria dei dissidenti e la loro sparizione dal Paese è un’altra pagina oscura del regime di Afewerki.

Nelle carceri eritree giacciono e muoiono migliaia di persone, compresi gli ex eroi dell’indipendenza dall’Etiopia.

In questo quadro di violazioni e soprusi, ingiustizie ed atti arbitrari, va contestualizzata l’ultima beffa ai danni della Chiesa cattolica e della popolazione più vulnerabile: la chiusura degli ospedali con conseguente confisca delle strutture.

«Davvero, non riusciamo a capire su quali basi il governo abbia maturato questa decisione – ha dichiarato padre Mussie Zerai, sacerdote eritreo e paladino dei diritti dei connazionali – i nostri ospedali curavano ogni anno duecentomila persone, circa il 6% dell’intera popolazione eritrea».

In totale sono oggi oltre 30 i presidi sanitari costretti a chiudere i battenti: «Questo rappresenta l’ennesima violazione alla libertà di scelta, oltre che a un danno per la popolazione più povera che non può permettersi di affrontare spese mediche per curarsi», conclude Zerai.

La Chiesa in effetti non è nuova a questo genere di attacchi: lo scorso 12 giugno uomini in divisa si erano già presentati in 21 centri sanitari di proprietà della Chiesa pretendendo la consegna immediata delle chiavi.

La Santa Sede teme ora per i propri istituti scolastici: in qualsiasi momento Asmara potrebbe ordinare il “passaggio di consegne” delle 150 strutture scolastiche gestite dalla Chiesa cattolica e di fatto l’operazione è già iniziata.

Un’azione che godrebbe di una formale legittimità giuridica perché conforme a quanto dispone la legge n.73 del 15 luglio 1995. Le autorità ecclesiali eritree denunciano anche l’arresto di 104 fedeli pentecostali e 5 ortodossi nelle ultime settimane.

«Chiediamo di essere ascoltati – scrivono i ragazzi del Coordinamento Eritrea Democratica – Di avere un confronto con il governo e il Parlamento italiani e con il Parlamento europeo. Vogliamo capire come mai non sembrano avere più alcun valore i rapporti dell’Onu che hanno sempre descritto quella eritrea come una delle più feroci dittature del mondo. O che almeno abbiano il coraggio di dirci perché non intendono ascoltare le nostre ragioni. Perché viene ignorata, soffocata, la voce della popolazione eritrea, che ha continuato a fuggire in massa anche dopo l’accordo di pace con l’Etiopia».

Human Rights Watch, organizzazione in difesa dei diritti umani, ha scritto diversi report annuali sulle violazioni di regime e in una delle recenti analisi dice che «la minaccia proveniente dall’Etiopia è stata sempre usata in precedenza per giustificare questa politica, ma tuttora non ci sono segnali di cambiamento. Il servizio nazionale rimane il principale motore dell’esodo di migliaia di giovani eritrei che affrontano con coraggio viaggi pericolosi per raggiungere la salvezza all’estero».

Amnesty International ha pubblicato un dossier molto dettagliato nel 2017, intitolato “Repression without borders”, sulle persecuzioni degli eritrei della diaspora da parte della longa manus del regime.

Ma come è possibile che questa dittatura repressiva e sanguinaria non sia presa di mira  e che le risoluzioni delle Nazioni Unite restino lettera morta?

«Afewerki è un politico molto abile, ha saputo costruirsi l’immagine di illuminato e di Che Guevara dell’Africa. Un’immagine che gli è rimasta cucita addosso nonostante tutto», dice Emilio Drudi.

Non solo: «l’Europa e in particolare l’Italia – denuncia ancora il Coordinamento – stanno accentuando l’apertura di credito ‘al buio’ nei confronti del regime eritreo, basandosi su una finzione: la finzione che la fine della guerra con l’Etiopia starebbe aprendo il paese alla democrazia. Ma altroché apertura alla democrazia».

Mai come adesso è necessario saper scegliere: «O stare al gioco della dittatura, o ascoltare chi si batte per una nuova Eritrea, facendo davvero della pace uno strumento per il ritorno della libertà e della democrazia», questo chiedono i giovani eritrei della diaspora italiana.

Possiamo continuare ad ignorare i loro appelli?