L’incontro dei missionari e delle missionarie italiane che lavorano in Perù è entrato oggi nel vivo con la relazione di Ismael Vega Diaz dal titolo “identità e clamore della Panamazzonia. Vega è antropologo presso il Centro Amazzonico di Antropologia e Applicazione Pratica, un centro studi peruviano della Rete Ecclesiale Panamazzonica sorta in vista del Sinodo. Cosa dobbiamo e possiamo imparare dall’Amazzonia? Si è chiesto l’antropologo. Quale modello di Chiesa può nascere navigando i fiumi dell’Amazzonia a contatto con i popoli indigeni? L’Amazzonia, ha affermato Vega Diaz, «non è solo un insieme di diversità ambientali e antropologiche, è soprattutto un insieme di possibilità e di orizzonti di vita. Tutto questo solo se riusciamo a scoprirla nella giusta maniera, che certamente non è quella dello sfruttamento delle grandi multinazionali con la complicità dei governi».
Al suo intervento ha fatto seguito un’ampia riflessione dei missionari sul senso della loro presenza in America Latina: don Silvio Andrian, fidei donum di Milano, ha portato la sua esperienza di missionario a Pucallpa, nella selva peruviana. «Qui a Puccallpa – ha detto – le definizioni di Amazzonia si confondono: tutto si confonde, l’indigeno perde la sua specificità assumendo atteggiamenti cittadini. Ed è per questo che dico che l’Amazzonia non è abitata solo da indigeni». Quello che vediamo ha aggiunto Giacomo Crispi, volontario di Milano con la moglie Silvia, sempre a Pucallpa «sono i frutti dello sfruttamento dell’Amazzonia: tronchi giganteschi del diametro di due metri che corrono via su grossi camion o lungo il fiume con le autorità che fanno finta di non vedere». Il problema, se non siamo attenti, «rischia di diventare quello degli indigeni stessi», dice Gery Iadicicco, di Nola, missionaria laica. «C’è gente che afferma che se non ci fossero gli indigeni i problemi per l’Amazzonia sarebbero di minor entità. Sembrano discorsi senza senso, ma ci siamo vicini: Bolsonaro in Brasile insegna».
«Noi pensiamo il contrario – continua Gery – pensiamo che proprio la presenza degli indigeni ti faccia mantenere alta l’attenzione su problematiche che altrimenti nemmeno percepiremmo, se non quando davvero sarà troppo tardi».
L’Amazzonia, è il commento di molti missionari presenti all’incontro e tra questi don Roberto Seregni, fidei donum di Como «ci costringe a una visione di chiesa del futuro, centrata sui ministeri, sulle donne, sulla capillarità di una presenza che ancora oggi come chiesa non riusciamo ad avere». Deve cambiare, ma come e dove? Il Sinodo serve a questo: a indicare percorsi più che a dare soluzioni.
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