Hong Kong, “ritirare la legge sull’estradizione in Cina non basta più”

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Il ritiro dell’odiato provvedimento sull’estradizione in Cina non basta più.

I gruppi di opposizione al governo di Carrie Lam, da mesi in piazza, non accettano le parziali aperture del capo dell’esecutivo ad Hong Kong.

«Il ritiro ‘formale’ della legge non significa che la lotta per la libertà di Hong Kong sia finita. La nostra posizione in tutti questi mesi è sempre stata chiara», scrivono gli aderenti al gruppo Guardians of Hong Kong, in un comunicato in rete fatto circolare sui gruppi di Telegram. 

«Tutte e cinque le richieste devono essere prese in considerazione in egual misura», aggiungono.

Il riferimento è ai cinque punti formulati dai contestatori (quasi l’intera popolazione della regione autonoma) e consegnati a Carrie Lam.

Tra questi c’è anche la richiesta di elezioni democratiche del capo dell’esecutivo e poi l’apertura di una seria indagine sui soprusi perpetrati dalla polizia.

Carrie Lam è apparsa visibilmente in difficoltà, soprattutto dopo la pubblicazione di un audio in cui ammette di essere quasi ostaggio di Pechino.

«Molti dei nostri fratelli e sorelle sono stati arrestati, accusati di rioting (rivolte di piazza ndr.), accusa che prevede una pena massima di dieci anni di prigione in base alla Legge sull’Ordine pubblico – si legge nel comunicato di Guardians of Hong Kong circolato su Telegram – La maggior parte delle persone arrestate sono state portate in cella arbitrariamente».

E il gruppo aggiunge una lista di numeri che testimoniano la violenza della reazione governativa alle proteste di piazza, che lo ricordiamo, sono state molto pacifiche all’inizio, ma hanno visto nei giorni scorsi infiltrazioni di frange più violente. In ogni caso sui manifestanti più pacifici  si è scatenata una repressione poliziesca molto accesa. 

«Dal 12 giugno al 4 settembre sono state arrestate 1138 persone, 6 persone si sono suicidate a causa del movimento. Sono stati sganciati oltre 2500 gas lacrimogeni e due persone sono state colpite da armi da fuoco», scrivono ancora gli attivisti nel comunicato.

I gruppi democratici di avvocati e attivisti hanno detto che la tardiva risposta di Carrie Lam è “too little, too late”, è troppo poco ed è arriva troppo tardi. Inoltre chiedono le elezioni democratiche del capo dell’esecutivo. E questa è un’altra nota dolente per Lam che teme il voto del popolo e teme anche Pechino.

Stretta tra due fuochi, guardiana della non ‘esuberanza’ dei suoi stessi governati, sa che deve rispondere ai diktat cinesi.

Una nostra fonte ad Hong Kong, padre Renzo Milanese, missionario del Pime, ci scrive che secondo lui «le aperture di Lam sono tardive, forse due mesi fa sarebbero servite ma non oggi. Oggi mi sembra un po’ poco. Inoltre la basic low, la Costituzione, promette libere elezioni e questo non viene rispettato».

Ma non si può comprendere appieno il rifiuto per l’estradizione in Cina, e la richiesta di totale indipendenza dalla Cina, se non ricordando che Hong Kong è una regione amministrativa speciale della Cina, autonoma dall’ex madre patria inglese dal 1997, anno in cui tornò a Pechino ma con la formula “un Paese, due sistemi“, che le permette libertà e diritti impensabili nel resto dell’impero del dragone.

Le realtà legate a doppio filo col governo di Pechino, e gli stessi attivisti e intellettuali cinesi, sanno bene cosa significa finire nelle maglie della giustizia cinese, o anche solo nel sistema statale, dove le garanzie sul rispetto dei diritti umani sono costantemente violate.

In Cina attualmente sono dietro le sbarre oltre 300 avvocati, personale legale ed attivisti associati; Pechino censura internet, mette il bavaglio alla stampa non di regime e tiene sotto scacco i blogger.

A giugno di due anni fa era stata introdotta una controversa legge sulla cybersecurity che controlla in modo ancora più stringente le App e i blog.

«In Cina – denunciava tempo fa il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury – il governo ha continuato ad applicare, con il pretesto della sicurezza nazionale, leggi liberticide. Il leggendario attivista Liu Xiaobo, premio Nobel per la pace, è morto, malato di cancro e senza cure mediche, dopo anni di prigione per aver espresso pacificamente critiche al proprio governo».

Wang Quanzhang invece è stato prelevato dalla polizia municipale di Tianjin a gennaio 2016 ed è stato condannato a 4 anni e mezzo di carcere, con l’accusa di “sovversione del potere statale”.

La Reuters parla di misure di soft detention in Cina, per quanto riguarda l’intimidazione dei famigliari degli attivisti che vengono praticamente “invitati” a piegare la testa di fronte alle decisioni prese dagli organismi statali. Anche

Liu Xia, moglie del Nobel Liu Xiaobo, è tra le vittime del soft power. Ecco perchè Hong Kong è così sensibile all’argomento diritti umani.

Questo la dice lunga sul timore che il popolo ha della Cina e del suo sistema statale, considerato corrotto e antidemocratico.

Moltissimi intellettuali si sono schierati a difesa della libertà di Hong Kong: anche l’artista Ai Weiwei, una sorta di Banksy cinese che ha preso le difese di diversi human rights defenders, ha dichiarato: «Abbiamo visto che i giovani difendono i loro diritti e questo perché nessuno si fida del sistema giudiziario cinese».