Ad Hong Kong la protesta si è cronicizzata e va ben oltre il no alla legge sull’estradizione in Cina.
Per il momento «non si vede via d’uscita, siamo in uno stallo, una situazione di deadlock», per di più la polizia si fa sempre «più repressiva nei confronti dei manifestanti».
Commenta così con noi al telefono padre Renzo Milanese, missionario del PIME ad Hong Kong.
«E’ molto significativo che la protesta sia riuscita ad andare avanti così a lungo: siamo alla dodicesima settimana, e sembra che non abbia intenzione di fermarsi- spiega – Anzi, sia gli studenti universitari che quelli delle superiori preparano nuove iniziative per l’inizio della scuola. Il 2 settembre è già in programma uno sciopero e il dipartimento dell’Istruzione ha avuto indicazioni precise su come muoversi ed è preoccupato per quello che potrà succedere».
Il sacerdote vive nella penisola a Statuto speciale da 47 anni ed ha partecipato in prima persona a diverse manifestazioni contro le iniziative del governo di Carrie Lam, a luglio scorso; oggi si dice spiazzato per la repressione da parte della polizia e per la tenacia della mobilitazione che indica un malessere profondo.
«In questi due mesi il rapporto della popolazione con la polizia è cambiato: Hong Kong aveva una polizia considerata professionale. Oggi c’è una perdita di fiducia nella capacità delle forze dell’ordine di dare sicurezza alla gente».
Perfino i medici degli ospedali pubblici sono scesi in strada per protestare contro i metodi di polizia che hanno causato danni e ferito i manifestanti: un articolo della Hong Kong free press parla proprio di questa presa di posizione dei medici e pubblica foto inequivocabili.
«La gente qui è cresciuta in una situazione in cui, pur non avendo la democrazia, aveva la libertà – spiega – In questi anni però ci sono stati vari segnali pericolosi e infine è arrivata la proposta di legge sull’estradizione in Cina che indica un desiderio da parte di Pechino di mettere sotto controllo Hong Kong».
Le repressioni si fanno sempre più violente: la polizia il 24 agosto scorso ha usato gas lacrimogeni, bombe d’acqua e manganelli contro i manifestanti, e ha perfino sparato in aria. Ottantasei persone sono state arrestate e tra queste c’era anche un ragazzino di 12 anni.
«Io sinceramente non riesco a vedere uno sbocco: il problema qui è la sfiducia nei confronti del capo dell’esecutivo, ma qualora Carrie Lam si dimettesse c’è qualcuno che prenderebbe il suo posto?», si chiede padre Milanese.
Lam appare sempre più in difficoltà ma non accenna a dimettersi, anzi nega di aver perso il controllo della situazione sul campo.
«Sfortunatamente la calma è svanita durante lo scorso weekend e le proteste si sono fatte sempre più violente – ha dichiarato lei alla stampa – io sottolineo il fatto che la violenza non è la strada per risolvere i problemi e non dovrebbe essere giustificata ed esaltata in nessun modo».
Ma è violento il dissenso ad Hong Kong o è la polizia ad essere sempre più repressiva?
Padre Milanese ci spiega che «il movimento è estremamente eterogeneo, c’è quello della marcia del 17 agosto che comprende l’area democratica, i partiti tradizionali in campo da 30/40 anni ed è pacifico, tanto da aver preso le distanze dalle azioni più violente».
Il missionario aggiunge che «in altri casi, come la manifestazione della settimana scorsa, sembra sia stata proprio la polizia a provocare una tensione degenerata in scontro».
Il missionario spiega che «C’è una tensione tra chi nella polizia, è direttamente coinvolto e chi non lo è. Un gruppo di famigliari di poliziotti chiedeva al governo di istituire una commissione indipendente di inchiesta sui fatti successi a partire da giugno in poi, se la polizia stia usando la forza in modo adeguato oppure no».
In generale, l’intero movimento non si limita a delle singole rivendicazioni, «ma riflette un malessere che andava avanti da tempo – spiega – : soprattutto la prospettiva di perdere la libertà che si è sempre avuta, la libertà di movimento. Io credo che l’elemento determinante sia ancora quello, al di là delle difficoltà contingenti: la paura di perdere la libertà cui sono abituati».