Quando i Paesi dell’Africa si uniscono per imporre qualche barriera commerciale, con l’unico scopo di difendere se stessi, Donald Trump va su tutte le furie.
Gli Stati Uniti invece possono unilateralmente decidere che è arrivato il momento di imporre dazi doganali sull’acciaio e sull’alluminio, e il mondo (Europa e Asia soprattutto) deve incassare in silenzio.
C’è qualcosa di estremante iniquo nella politica commerciale americana. Questo lo si era capito già da un po’. Ma stavolta The Donald ha davvero toccato il fondo. Facciamo un po’ di rassegna stampa estera per capire meglio.
A scriverlo sono AllAfrica, ma anche l’Agence d’information d’Afrique Centrale e poi Jeune Afrique. Nonché Africa News, Reuters.
La questione è questa: Uganda, Ruanda e Tanzania avrebbero deciso a gennaio scorso di mettere un freno all’import di vestiti usati (provenienti per lo più dagli Stati Uniti) per incoraggiare la produzione interna di abiti.
I giornali locali spiegano che i tre Stati africani ‘orientali’, invasi da tessuti ed abiti di seconda mano vorrebbero ‘proteggere’ la loro economia fragile – soprattutto le traballanti industrie tessili ruandesi e ugandesi di cotone e tessuti sintetici – applicando qualche barriera e qualche dazio in più. Apriti cielo! Il presidente americano non ha gradito. Addirittura minaccia sanzioni.
«Il rappresentante al Commercio – scrive Africa News – ha annunciato di voler rivedere i benefici commerciali concessi a Ruanda, Tanzania e Uganda all’interno dell’African Growth and Opportunity Act (AGOA), in seguito alle limitazioni poste all’import di abiti usati».
Le minacce hanno già sortito qualche effetto: il Kenya, che all’inizio sembrava sostenere i tre fratelli africani, spiega l’Agence d’information d’Afrique Centrale, s’è ritirato dalla battaglia. Uganda, Tanzania e Ruanda vanno avanti da soli.
L’analisi di AllAfrica a firma di Aisha Bahadur è molto dettagliata nel racconto del background commerciale.
«La liberalizzazione tariffaria assieme alle politiche di aggiustamento strutturale in Africa hanno creato settori economici basati su una crescita dipendente dall’investimento estero. La conseguenza è una crescita guidata dall’export nel settore dei tessili, il che non ha certo aiutato l’industria interna», dice AllAfrica.
L’AGOA inoltre ha creato una dipendenza completa dei lavoratori del tessile dal mercato americano. A questo punto, colpiti dalla globalizzazione, gli africani si sono ritrovati più poveri e più impantanati che mai. Tanto che rialzare la testa è quasi impossibile.
Appena qualcuno ci prova (e ci riesce), ecco la randellata.
A spingere affinché i tre Paesi dell’est africano ritirino la loro politica protezionista sono le lobby americane dell’usato: la Secondary Materials and Recycled Textiles Association (SMART), che è naturalmente vicina a Trump.
Lo slogan “America first” della Casa Bianca nel concreto significa molte cose deleterie per tutti gli altri. Più che uno slogan è una minaccia: prima vengono gli Stati Uniti, le loro esigenze e le loro protezioni, poi semmai, tutti gli altri a cascata.
In un mondo oramai globale e liberista (sul quale peraltro è stata sempre l’America a spingere, capofila assoluta di una globalizzazione spietata), le chiusure di Trump suonano anacronistiche. E onestamente anche fuori dalla realtà e dalle regole dettate proprio da Washington.
Tanto che il Guardian ad esempio mette in guardia sul fatto che la politica protezionista, con i dazi sull’acciaio e altre restrizioni, si può trasformare in una vera e propria guerra commerciale.
D’altra parte Donald è uno che alle guerre (e alle paci) vere preferisce quelle fatte di accordi e disaccordi commerciali.
La forza del dollaro conta più delle bombe in questa America qui. Non che poi il presidente disprezzi le bombe e i fucili veri, tutt’altro. Tra le possibili vittime delle guerre commerciali c’è anche il Sudafrica che trema al solo pensiero: l’African review fa sapere che Johannesburg sta valutando gli effetti di eventuali tariffe americane sull’acciaio dal momento che ne esporta una buona quantità negli Usa: l’1,4% delle importazioni americane viene dal Sudafrica. Ma anche da Canada e Brasile.
A farne le spese comunque sarà soprattutto la Cina: i recenti dazi sono un attacco diretto a Pechino, che da parte sua avverte: «non ci saranno vincitori, questa politica fa solo perdenti», come riporta il Guardian.
Il ministro al commercio cinese, Zhong Shan, è ben determinato a reagire: colpendo il carbone americano. In una corsa all’ultimo dazio a risentirne sarà il libero mercato.
Tra i Paesi target del protezionismo americano ci sono anche la Corea del Sud, il Giappone e l’India.
Il problema adesso è che a vincere in un mondo senza regole (dove le regole le detta il Paese che ha il potere di deterrenza maggiore) sono come sempre i più ricchi e i più prepotenti. L’impressione è che ancora una volta l’Africa sarà costretta a battere in ritirata. A meno che non si metta di buzzo buono a far il verso a Trump.
In un bel pezzo intitolato ‘Guerre commerciali? L’Africa è sempre stata vittima per anni”, il Guardian con le parole di Afua Hirsch scrive che «ciò di cui avrebbe bisogno l’Africa, come un mio amico è orgoglioso di affermare, è un Trump africano: un leader dell’Africa first che non sia timoroso di trattare male il resto del mondo».
«Il protezionismo – prosegue – è stato spesso associato (e perciò criticato) alle politiche dei Paesi più poveri. E’ ciò che fanno Sierra Leone, Zimbabwe e Iran ed è perciò che essi sono annoverati tra i meno competitivi al mondo. Ed è da loro, che adesso, Trump trae ispirazione».
Il mondo sembra essersi capovolto, le sorprese di The Donald sono infinite. La speranza dei suoi rivali commerciali è che il neo-protezionismo americano gli si ripercuota contro: è possibile che Trump si ritrovi a dover subire gli effetti deleteri di diverse porte sbattute in faccia da tutti quei Paesi maltrattati, che gli renderanno pan per focaccia.