Hafez Haidar è nato il 25 maggio 1953 a Baalbeck, in Libano, antica città romana conosciuta come “l’Olimpo degli dei”; ha studiato Filosofia greca e araba all’Università di Beirut e si è poi trasferito in Italia dove ha studiato all’Università di Perugia e Milano laureandosi in Lettere.
Ha lavorato nell’ambasciata libanese a Roma come archivista, in seguito si è dedicato unicamente alla letteratura e alla poesia, traducendo grandi testi arabi in italiano, come anche “Il Profeta” di Khalil Gibran, ed altre opere dello scrittore libanese cristiano-maronita.
In questa intervista esclusiva, pubblicata sul numero di gennaio di Popoli e Missione, ci racconta in che misura la poesia può valere più della diplomazia per arrivare ad una pace duratura.
«Il vero varco per non cadere nella trappola della guerra ad ogni costo e per non cedere al potere di conquista, è dare spazio all’arte», dice oggi Hafez.
«Il poeta è la voce del popolo – aggiunge – Quindi deve parlare, ha un’urgenza di raccogliere la voce delle persone tramite la sua, e parlando profetizza».
Secondo lo scrittore libanese per annientare il virus della guerra e avvicinare le civiltà e le culture, soprattutto quella cristiana a quella araba, è necessario conoscere la letteratura e la Storia.
La visione di Haidar è opposta a quella di Samuel Huntington teorico dello “scontro di civiltà”.
«La mia ipotesi è che la fonte di conflitto fondamentale nel mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologica né economica – scriveva Huntington – Le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura».
«Io ritengo che invece sia proprio la cultura il varco per annientare il conflitto, e sicuramente lo è il dialogo interreligioso», ribatte Hafez.
«Ho conosciuto il razzismo e il fanatismo etnico, la guerra civile in Libano e ho deciso che avrei lottato per la pace sostanzialmente scrivendo», ricorda.
Tra i Paesi e le regioni caduti nella trappola della guerra permanente, il professor Haider cita Israele e Palestina, l’Iraq e il suo Libano.
Nel nominare il “Paese dei cedri” si commuove e dice che è «maltrattato, messo in ginocchio, calpestato: la crisi economica sta distruggendo il Libano sotto gli occhi del mondo che non interviene in nessun modo».
(l’intervista completa nel numero di gennaio di Popoli e Missione).