Anche oggi – mercoledì 30 ottobre – per riflettere sulla seconda grande tematica del Forum missionario che si sta svolgendo a Sacrofano, si è partiti dalla vita, cioè dalle esperienze di vissuto quotidiano.
A testimoniare il loro “essere inviati” sono stati don Francesco Doragrossa, sacerdote della diocesi di Genova, fidei donum a Cuba per quattro anni, oggi rientrato; Dorotea Passantino e Tony Scardamaglia, sposi di Palermo, laici comboniani, che vivono nella Comunità La Zattera; e suor Raquel Soria, argentina, missionaria della Consolata che ha vissuto nella Comunità intercongregazionale di Modica (RG).
DON FRANCESCO: IL CORAGGIO DI BUTTARSI
Era professore di religione nel Liceo di un quartiere ‘bene’ di Genova, parroco in due piccole parrocchie, assistente di una comunità di ex tossicodipendenti, responsabile di un gruppo giovanile. «Mi sentivo un po’ arrivato. Ma poi ho detto: mi butto e vado… E così ho risposto a chi mi aveva proposto di partire come missionario per Cuba».
E’ il 2012. Nella diocesi di Santa Clara, raggiunge un confratello di Chiavari e uno di Savona e con loro comincia la sua esperienza missionaria come fidei donum. Il vescovo locale gli affida una parrocchia che da anni non aveva sacerdoti: «Ho trovato una chiesa diroccata, senza canonica, addirittura senza bagno. Ma l’urgenza era ascoltare la gente. Mi dicevano: “Abbiamo voglia di riaprire le case di missione”, ovvero abitazioni di famiglie che aprono la loro porta per accogliere la comunità che si riunisce per leggere il Vangelo e, a volte, celebrare i sacramenti. Abbiamo riaperto 11 “case di missione”, anche in luoghi sperduti».
Dopo quattro anni in cui don Francesco e la sua gente hanno ricostruito, insieme, una comunità viva e coesa, è arrivata la richiesta di rientrare in Italia: «Solo in quel momento ho capito che non ero io che avevo lasciato tutto ed ero partito per la missione, ma era il Signore che mi aveva chiamato e inviato».
TONY E DOROTEA: INVIATI A POCHI PASSI DA CASA
Laici missionari comboniani, come coppia Tony e Dorotea si chiedevano cosa Dio volesse dalla loro vita e come risposta avevano progettato di lasciare la loro città, Palermo, per l’Africa. Ma la partenza, invece, è stata a breve percorrenza, a pochi passi da casa: qui, 11 anni fa insieme ad altri laici comboniani, hanno costruito la Comunità La Zattera, dove vivono quotidianamente e accolgono migranti.
«Ci chiedevamo e ci chiediamo tuttora a cosa siamo inviati: il progetto di Dio è sempre un divenire. Ma poi ci siamo accorti che l’Africa veniva da noi. Gli “estremi confini della terra”, che Gesù nel Vangelo ci dice di raggiungere, si avvicinano a noi ogni giorno sempre di più» spiega Tony.
E così hanno spalancato la porta per accogliere i migranti che arrivano.
«Nell’esperienza dell’incontro – aggiunge Dorotea – c’è un’esperienza di fede. L’invio lo sentiamo perché è la storia che ci convoca, è il mare che ci convoca. Il mare sta gridando ogni giorno. Noi sentiamo l’appello perché crediamo in un Dio pellegrino. Siamo una “zattera” per chi arriva e siamo felici di esserci perché Dio ci provoca e noi vogliamo lasciarci provocare sempre».
SUOR RAQUEL: “UN VASO DI CRETA” CONSEGNATA ALLA MISSIONE
«La missione non è un ornamento che posso togliermi, ma è qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non voglio distruggermi». Sono queste le parole centrali della lunga e commossa testimonianza di suor Raquel, che ha raccontato tutti d’un fiato i suoi quasi 30 anni di vita religiosa come missionaria della Consolata. La sua vicenda è stata un susseguirsi continuo di invii, uno dopo l’altro, in ambienti diversi nei quali donare tutta se stessa e dai quali attingere a piene mani.
Purtroppo, nonostante la sua giovane età, suor Raquel si è ammalata gravemente tanto da diventare dipendente da altre persone che dovevano assisterla in tutto. «È stato un momento difficile – racconta la missionaria – in cui il Signore mi ha fatto capire con testarda tenerezza che non avevo bisogno della mia salute e neppure di partire per essere felice! Avevo bisogno di Lui, del Suo amore, della Sua presenza per avere quella gioia, quella pace che niente né nessuno avrebbe potuto mai togliermi».
E’ allora che accade qualcosa d’inaspettato: le sue superiore decidono di mandarla in Kenya, convinte che il clima di laggiù avrebbe giovato alla sua salute. Partire in queste condizioni di salute sembrava una follia.
«E forse avevano ragione, ma io sentivo che il Signore, in quell’apparente assurdità, mi chiamava a mettere tutta la mia fiducia in Lui e a seguirlo. E rinnovai il mio Sì a Dio. Mi sentivo un vaso di creta consegnata alla missione, inviata dal mio vescovo, dalla mia congregazione e dalla mia famiglia».
Arriva così in una piccola comunità alla periferia di Nairobi e comincia a prestare servizio nel Kamiti Maximum Security Prison, il più grande e malfamato carcere del Kenya: opera sia nel settore di massima sicurezza, sia in quello per i minori.
L’umanità ferita incontrata in questi anni, di cui si fa carico in prima persona, la porta con sé nel 2013 quando arriva a Milano, dove opera in una comunità per minori non accompagnati: «Anche qui ho trovato dei roveti ardenti che non si consumano nonostante le indicibili sofferenze e umiliazioni, e dai quali il Signore continua a parlarci, chiamarci, inviarci».
Nel 2016 viene inviata a Modica in una comunità intercongregazionale voluta dalla Conferenza degli Istituti Missionari in Italia (CIMI), impegnata nell’accoglienza dei migranti e non solo. «E’ un segno che è possibile vivere insieme come Istituti diversi, sia maschili che femminili: la passione per Dio e per l’umanità ci ha fatto affrontare e superare le inevitabili difficoltà».
Lo scorso anno la grave malattia di suor Raquel si è riaffacciata ed ha dovuto lasciare Modica. Ma la sua vita, dice, è un continuo Magnificat di lode al Signore: «Se è vero che i missionari sono inviati nel mondo per annunciare Gesù e il suo Vangelo, è altrettanto vero che noi missionari siamo stati evangelizzati dalla nostra gente».