La libertà di Patrick Zaki ora è nelle mani del Presidente dell’Egitto Abdel Fattah al-Sisi.
Solo lui – dittatore di fatto, al potere dal 2014 e uomo dal pugno di ferro – potrebbe paradossalmente ribaltare la sentenza definitiva della Corte, che condanna l’ex studente dell’Università di Bologna a tre anni di carcere.
La “colpa” di Zaki è quella di aver scritto nel 2020 un articolo sulle discriminazioni contro i cristiani-copti in Egitto.
La sentenza di ieri nei confronti del giovane attivista non prevede appello: Zaki è stato giudicato da un Tribunale di sicurezza che proibisce i ricorsi.
L’unica eccezione riguarda il Presidente, appunto, il quale potrebbe decidere di liberare il condannato, accordando una sorta di “grazia” a Zaki.
In queste ore si rincorrono, sia in Egitto che altrove, appelli per la liberazione rivolti ad Al Sisi: il primo dei quali arriva dal Consiglio di amministrazione del National Dialogue egiziano.
Si tratta di una sorta di Assemblea interna per il dialogo, composta da giornalisti, attivisti, insegnanti, studenti, creata in seno alle stesse istituzioni statali egiziane, per favorire un’apparente apertura al dialogo su temi di interesse generale.
In questo caso il National dialogue chiede di rivedere la decisione su Zaki.
Con un comunicato ha fatto appello al regime di Al Sisi affinchè «usi la sua autorità legale e costituzionale per liberare Zaki».
I componenti del National Dialogue ricordano al Presidente che il recente ottenimento di un master universitario (conseguito all’Università di Bologna) da parte di Zaki dimostra «il suo impegno per il futuro dell’Egitto».
Ma le richieste non si fermano qui: un appello firmato da una cinquantina di organizzazioni della società civile egiziana, chiede ad Al Sisi di «non ratificare il verdetto» ma di rigettarlo completamente.
Queste sigle vanno dal Cairo Institute for Human Rights Studies (CIHRS) alla Campaign Against Arms Trade, ad Amnesty International a Democracy in the Arab World Now (DAWN). Qui l’appallo.
Francesco Vignarca, Coordinatore nazionale della Rete italiana per il disarmo suggerisce di fare pressioni commerciali su Al Sisi, per spingerlo ad un ‘atto di clemenza’ e di giustizia.
«Noi avevamo già chiesto in passato uno stop completo di fornitura di armi all’Egitto perchè ci sembrava una delle modalità con cui sarebbe stato possibile fare pressione sui singoli casi, come quello Zaki, ma anche per un cambio politico», argomenta con noi Vignarca.
«Non è una questione che riguarda solo il commercio delle armi – precisa -Tuttavia questo è un tema cruciale».
Tra il 2013 e il 2021 l’Italia ha esportato in Egitto armi piccole e leggere per un valore compreso tra i 18 e i 19 milioni di euro, come spiega il rapporto appena pubblicato da EgyptWide.
«Sappiamo tutti che se ad un Paese vendi le armi lo stai considerando affidabile, se non alleato», prosegue Vignarca.
«Anche il Parlamento europeo, richiamando specificatamente i casi di Patrick Zaki e Giulio Regeni oltre alle numerose violazioni dei diritti umani in Egitto, si è espresso ripetutamente con diverse risoluzioni votate ad ampia maggioranza per chiedere agli Stati membri di “sospendere tutte le esportazioni verso l’Egitto di armi, tecnologie di sorveglianza e altre attrezzature di sicurezza in grado di facilitare gli attacchi contro i difensori dei diritti umani e gli attivisti della società civile, anche sui social media, nonché qualsiasi altro tipo di repressione interna”», ricorda anche Giorgio Beretta, dell’osservatorio Permanente sulle armi leggere di Brescia.
In queste ore gli appelli per Zaki arrivano da più parti: la premier Giorgia Meloni oggi ha detto «il nostro impegno per una soluzione positiva del caso di Patrick Zaki non è mai cessato, continua, abbiamo ancora fiducia».
Si tenta di giocare l’ultima carta utile, quella del “perdono” per Zaki, corrispondente appunto alla grazia.
Ma il regime di Al Sisi si è sempre mostrato poco permeabile alle richieste di trasparenza, verità e giustizia.
Aver abbassato la guardia in questi mesi, sul caso Zaki, ha contribuito al risultato attuale, scrive Amnesty International.
«Dopo la scarcerazione, alla fine del 2021 e la laurea di due settimane fa, in molti avevano pensato che andasse bene così – ha commentato oggi Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International – Hanno celebrato lo “Zaki libero” e lo “Zaki dottore”, ma hanno via via perso di vista lo “Zaki imputato”».