Riceviamo la lettera di padre Mauro Armanino, missionario SMA IN Niger e volentieri la pubblichiamo.
«Ho scoperto la limitatezza in questo mese di luglio anni fa, nell’ospedale San Martino di Genova. Un mese esatto di degenza per un neoplasma nel cervello felicemente asportato.
Trenta giorni immobili e il mondo, cielo compreso, in una stanza comune e qualche giorno nel reparto di rianimazione.
A trent’anni la carne e l’anima hanno compreso che la vita è limitata nel tempo, nello spazio e nel movimento.
L’onnipotenza degli anni operai, delle teologie di carta e delle speranze a buon mercato se n’è andata per sempre. L’ultimo giorno del mese, uscendo dal reparto di neurochirurgia ho visto le nubi e sentito l’aria al sapore di mare per la prima volta.
I primi incerti passi col timore di aver dimenticato come si cammina e l’attenzione ai dettagli di un mondo che appariva colorato come mai prima. Il primo giorno della creazione era passato.
Nel Sahel sappiamo di non essere onnipotenti e neppure ci proviamo.
La vita dura poco e quando c’è è fragile, limitata e provvisoria come tutto il resto. Si arriva per caso o comunque senza volerlo, si parte talvolta all’improvviso e raramente preparati come si deve.
Nessuno pretende di dettare legge alla vita o semplicemente immaginare di pretendere ciò che non si possiede. Si vive ogni giorno per miracolo o per abitudine e questo basta perchè le ore abbiano un senso e una direzione.
Si nasce in qualche modo con una promessa da compiere che sta scritta sulla sabbia e basta un poco di vento per imbrogliarne il tracciato. Lo sanno tutti che i diritti sono un lusso che pochi possono permettersi. La vita non si spiega ma si vive.
Non parliamo poi del lavoro che arriva, si perde, scompare una mattina e poi si nasconde per qualche settimana per riapparire, come se niente fosse, un paio d’anni dopo in un ufficio qualsiasi dell’amministrazione penitenziaria.
La limitatezza dei contratti inesistenti e il precariato che va in giro con forbici, macchina da cucire, pantaloni da vendere, liquori da spacciare, thermos e il thè per la colazione ambulante, sono il nostro lavoro.
Ci sono, è vero, industrie di estrazione e qualcuna di trasformazione, treni che non passano e binari in attesa di treno e mercanzie, ma tutti sanno che, in fondo, a dare il lavoro è solo Dio, inch’allah. Noterete negozi di ‘pret à porter’, pannelli pubblicitari e bar d’occasione. Passate una settimana dopo e di tutte queste illusorie entità lavorative non troverete traccia. Il comune le ha demolite.
Se c’è un ambito nel quale la limitatezza si realizza con squisita fattura è quello della politica. Anche i bambini che giocano nei cortili o lungo le strade lo sanno bene. La politica e l’economia sono l’arte del limite applicato ai cittadini.
Solo coi mandati presidenziali, per un attimo, questo principio sembra cedere alla realtà del prolungamento indefinito.
Ma arriva, inesorabile, l’età, gli acciacchi di stagione e i colpi di stato militare per ricordare agli incauti attentatori del limite costituzionale stabilito, che tutto ha una fine.
Progetti, partiti politici, piani di aggiustamento, strategie di sviluppo sostenibile, azioni di contrasto al cambiamento climatico, ruolo imprenditoriale accresciuto per le donne, tutto ciò e molto altro si sposa con la limitatezza delle previsioni più ottimiste. La politica degna questo nome è quella che rispetta i poveri.
Eppure tutto ci parla di limitatezza a partire dal corpo, dall’età che li scolpisce, dagli affetti e dalla vita che un giorno ci lascia per emigrare altrove.
Educare al limite, inteso come frontiera aperta all’accettazione riconoscente della creaturalità che ci costituisce, dovrebbe essere uno dei compiti della scuola. E’ però soprattutto nella famiglia che si dovrebbe imparare a comporre l’elogio della finitezza perché lì la vita si rivela nella sua quotidiana avventura.
Qui nel Sahel sappiamo che tutto parla di fragilità. Il presente, il futuro, il cibo, la semina, il raccolto, lo stato di urgenza dovuto ai gruppi armati, l’incertezza di tornare a una casa che forse è stata spazzata via dall’ultima inondazione e del matrimonio che dura finchè lo porta il vento.
Qui amiamo la materialità, la prossimità, la vicinanza degli antenati e crediamo nella follia dei corpi.
Il capitalismo è nato da recinzioni che hanno segregato quanto era patrimonio comune solo per iniziare ad abbattere tutti i limiti che incontrava sul suo cammino.
La lotta al capitalismo, se vuole essere onesta con sé, non può non passare attraverso il ricupero della limitatezza che ponga le premesse per la sconfitta totale di questa dittatura. La stessa ecologia, slegata dal limite creaturale, rischia di trasformarsi in un inedito e ambìto nuovo settore del liberalismo. Ritorno alla natura e l’applicazione abusiva dell’ingegneria genetica è uno dei paradossi drammatici del nostro tempo.
La limitatezza nasce dall’ascolto della pioggia che cade, del fiore che sboccia nel deserto, del vagito di un bimbo, del silenzio paziente delle stelle, del volto scavato di un padre, di una madre che carezza il futuro della figlia e di nostra sorella morte che ci prenderà per mano.
(Foto wikipedia diAnnabel Symington – The road to Timbuktu, Mali, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11950762)