Cambogia: la fede di nonna Yeng e la forza della gratitudine

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L’autore è missionario del Pontificio Istituto Missioni Estere (Pime) e da quattro anni è tornato in Italia dalla Cambogia.

Tra i volti cari che non sono riuscito a rivedere nel mio ultimo viaggio a Kdol Leu, c’è quello di Nonna Yeng.

Nonna, perché in Cambogia il nome è sempre preceduto dal posto che ricopre nella grande famiglia umana.

Ma Yeng, a dire il vero, era più che nonna, era addirittura trisnonna!

Al villaggio, almeno metà delle persone sono in un qualche modo suoi nipoti.

Nonna Yeng è morta l’anno scorso, ufficialmente a 107 anni, ma secondo i miei calcoli a 110 (avevamo festeggiato il suo centesimo compleanno 10 anni fa).

Quando avevo lasciato Kdol Leu per tornare in Italia, non stava benissimo e l’avevo salutata sapendo che probabilmente non ci saremmo più rivisti, anche se in me speravo il contrario, perché di soprese così, Nonna Yeng ne aveva già fatte tante.

 

Non so quante volte aveva ricevuto l’unzione degli infermi pensando fosse ormai arrivato il suo momento e, invece, eccola lì dopo qualche giorno in piedi, col suo bastone, un passettino alla volta, venire in chiesa per ringraziare il Signore.

Se c’era una cosa che non le mancava, era proprio il senso di gratitudine.

Ringraziava sempre per qualsiasi cosa, per un piccolo dono o anche solo per una visita al volo di pochi minuti.

Ringraziava a lungo, con il tradizionale gesto delle mani giunte, accompagnandolo con una preghiera, chiedendo al Signore di ricompensare le persone che la aiutavano.

E di aiuto, con l’aumentare degli anni, ne aveva avuto sempre più bisogno.

Nonna Yeng aveva una fede, mi verrebbe da dire, rocciosa.

Ne aveva passate tante (lutti, anche di figli, povertà, malattie, guerre), eppure la sua fiducia e il suo amore per il Signore non erano venuti meno, anzi.

Era diventata cristiana quando si era sposata con un giovanotto di Kdol Leu, questo villaggio strano, chiamato “villaggio di Gesù”, immerso in un mondo buddhista e, in quella zona, anche musulmano.

Aveva chiesto il battesimo, ci teneva a chiarirlo, non perché si fosse sposata con un cristiano, ma perché a Gesù lei ci credeva.

Lo diceva proprio così, in maniera secca.

Fin da giovane sposa, si era affezionata molto alla chiesa del villaggio.

Un edificio sobrio, in muratura bianca, costruito lunga l’unica strada che costeggiava il grande fiume Mekong.

Un giorno, proprio mentre stava spazzando il piazzale antistante, una bomba lanciata da aerei americani, allo scopo di scovare le truppe vietcong rifugiate in quella zona, aveva preso in pieno la chiesa.

Yeng sbalzata lontano, dopo aver ringraziato per essere sopravvissuta, si era subito resa conto di aver perso l’udito.

In verità, ne era rimasto una piccolissima parte, ma bisognava urlarle forte perché sentisse.

La chiesa era ridotta ad un cumulo di macerie. Si era salvata, però, la statua della Madonna, rimasta in piedi sopra la colonna.

Yeng aveva interpretato quel fatto come un segno della protezione di Maria, che non sarebbe mai venuta meno.

Era solo l’inizio della guerra che poi avrebbe portato la Cambogia ad uno dei periodi più bui e drammatici della sua storia.

Un po’ di luce si era iniziata a rivedere negli anni Novanta, quando la comunità internazionale era finalmente intervenuta per favorire il processo di pacificazione.

In quegli stessi anni, anche la piccola comunità cristiana di Kdol Leu, decimata e senza più chiesa, aveva ripreso a rialzarsi.

Anche Yeng faceva la sua parte.

Un missionario di quell’epoca mi raccontava che era lei a fargli da cuoca e da sacrestana: si prendeva cura di tutto con grande scrupolo, perché nulla venisse perso o rovinato.

Anche negli ultimi anni quando faceva fatica a camminare, il sabato pomeriggio la vedevo spesso attorno alla chiesa (che nel frattempo era stata ricostruita in muratura) con in mano una scopa al posto del suo bastone, tutta intenta a rendere quel luogo pulito e accogliente per la Messa della domenica.

Messa a cui difficilmente mancava: avrebbe voluto dire che stava proprio male.

Ad alcuni dei suoi nipoti che cercavano di dissuaderla dalla necessità di venire in chiesa, ripeteva: «Il mio corpo è povero, non voglio che anche il mio cuore lo sia».

Una domenica, essendo ricoverata nell’ospedale locale, eravamo andati a portarle la comunione.

Lei, in camera con altre persone, non sembrava provare alcun imbarazzo: i cristiani in Cambogia sono visti un po’ come degli alieni, ma lei, tranquilla, aveva recitato tutte le sue preghiere e ricevuto la comunione con grande devozione.

Ora che ci ha lasciato, mi piace immaginarla lassù, con un sorriso ancora più bello, cantare con gli angeli in coro.

Ho letto che, secondo Tommaso d’Aquino, esistono tre gradi di gratitudine: riconoscere il bene ricevuto; lodare e ringraziare per esso; ricambiare in base alle proprie possibilità.

Direi che Nonna Yeng, senza aver studiato filosofia, li viveva tutti.