C’è molta preoccupazione in Africa orientale per il via libera ad un mega-progetto petrolifero (l’East Africa Crude Oil Pipeline) che prevede la costruzione di un oleodotto lungo 1400 chilometri tra Uganda e Tanzania, fino al porto di Tanga, al confine col Kenya, sull’Oceano Indiano. Da dove il greggio prenderà il largo anzitutto per l’Asia.
Oxfam ha lanciato l’allarme, subito seguita da ambientalisti ed attivisti dei diritti umani che denunciando rischi per 12mila famiglie costrette a lasciare i loro appezzamenti di terra e a stravolgere intere esistenze.
Ma anche i nostri missionari sono preoccupati: don Sandro De Angeli, fidei donum della diocesi di Urbino, da 4 anni a Moroto, nel nord dell’Uganda, raggiunto al telefono ci spiega che «questo oleodotto anzitutto distruggerà l’ambiente attorno al lago Albert, che è una delle risorse più grandi e incredibili del Paese; e poi non sarà assolutamente un bene per chi vive in queste aree. Il ritorno economico sarà a vantaggio delle aziende petrolifere interessate, tra cui la Total, non certo delle popolazioni locali».
Tra i promotori dell’oleodotto c’è anzitutto la Cina: è infatti coinvolta nel progetto la China National Offshore Oil Corporation, e il greggio estratto servirà soprattutto il mercato cinese.
L’investimento per questa “grande opera” (una volta ultimata sarà la pipeline più lunga al mondo), che pomperà il petrolio dal sottosuolo attraversando fiumi, foreste e corsi d’acqua, è pari a 3,5 miliardi di dollari; un tubo di cemento che non solo sottrarrà la terra coltivabile ma minaccia di alterare ulteriormente l’ecosistema, come denunciano onlus e charities.
«Alle famiglie ‘sfrattate’ hanno dato un indennizzo e a molte persone hanno fornito delle case in muratura in zone lontane, è vero; ma ci sono state proteste perchè le famiglie non sanno dove mettere i loro animali e anche perchè lì coltivavano la loro terra», dice ancora don Sandro.
Il petrolio verrà estratto in Uganda e condotto attraverso la Tanzania: sono partner del progetto l’Uganda National Oil Company, la Tanzania Petroluem Development Corporation (TPDC) e tre compagnie petrolifere tra cui la francese Total.
«Per come è configurato l’affare, l’Uganda diventa una preda – commenta con noi al telefono Federico Santi, ingegnere a capo di Venite e Vedrete Onlus, di stampo cattolico che realizza progetti di sviluppo in Tanzania – sembrerebbe l’ennesimo furto di risorse, anche perchè questo petrolio verrà esportato all’estero, anzitutto in Asia. E dunque non servirà al mercato interno».
L’altro elemento che desta sgomento è la modalità con la quale si è proceduto alla realizzazione della prima fase del progetto: «le popolazioni locali lamentano il fatto che non possono più visitare liberamente i villaggi più interessati all’estrazione del petrolio: e che le consultazioni non si sono tenute in modo partecipativo», scrive Oxfam.
Ma se i proventi del petrolio estratto raggiungessero realmente le popolazioni locali, sarebbe comunque una risorsa contro la povertà.
Un portavoce governativo della Tanzania ha assicurato che i proventi stimati arriveranno a 3,24 miliardi di dollari e che l’oleodotto creerà 18mila posti di lavoro in 25 anni.
Ma i dubbi sono infiniti: saranno davvero questi i numeri dei nuovi impieghi? E chi garantirà sui loro salari e sulla sicurezza?
«Abbiamo visto come è finita con le miniere d’oro e pietre preziose nella zona di Moroto: ai locali non vanno mai i proventi delle ricchezze estratte – spiega ancora il fidei donum, don Sandro – E non c’è neanche la certezza che la gente del posto verrà impiegata a lavorare nell’oleodotto. Di solito gli operai delle infrastrutture sono cinesi. Inoltre, qui in Uganda l’ambiente è prezioso ed ogni stravolgimento ha delle ripercussioni immediate sulle nostre vite: lo stiamo verificando anche adesso. Il clima è molto cambiato e la stagione della pioggia non finisce più: è iniziata a marzo e ancora prosegue, praticamente quest’anno non ha mai smesso di piovere!».
(ilaria de bonis)
(foto crediti: ilaria de bonis, Singida, Tanzania)