Dalla Nigeria al Congo all’Uganda, diversi movimenti di contestazione dal basso fanno parlare di sé nel continente africano. Si oppongono ai presidenti a vita, alla corruzione dei governi e alla violenza della polizia.
Tayo Fatunla, fumettista cattolico nigeriano molto critico nei confronti della presidenza di Muhammadu Buhari in Nigeria, ha scelto fin dai primi anni della sua carriera, di mettere l’arte a servizio dell’informazione. E dell’autocoscienza di un intero popolo.
La sua è una scelta coraggiosa, poiché in questo Paese africano dilaniato dalla violenza di Boko Haram, dalla povertà e da una politica debole ma autoritaria, chi dice no rischia la vita. E questo accade ad ogni livello: a partire dalla Chiesa cattolica (che è sempre più nel mirino del terrorismo al pari dei molti fedeli in pericolo) per finire con gli artisti, gli studenti, gli attivisti, i giornalisti. Il popolo in Nigeria è schiacciato tra il terrorismo di matrice islamica, e la violenza delle forze dell’ordine.
«L’istruzione è l’arma più potente che abbiamo – dice senza ombra di dubbio Fatunla – e i fumetti possono contribuire ad istruire le persone. I giovani nigeriani pretendono oggi di avere una leadership giovane al governo, che li accompagni nelle loro scelte, senza reprimerli. E attraverso i miei fumetti io do rilievo a queste tematiche e alle istanze delle persone comuni».
Buhari, ex generale di 78 anni, presidente della Nigeria dal 29 maggio 2015, è rimasto in carica dal 1983 al 1985 come presidente del Consiglio Militare Supremo. Ed ora gestisce un intero Paese come avrebbe gestito un esercito, con rigide gerarchie militari. Che però non colpiscono tanto il terrorismo jihadista quanto i comuni cittadini.
«Il nostro presidente Muhammadu Buhari si è dimostrato un leader debole», denuncia Tayo in una intervista con il giornalista Vincenzo Giardina. «Non ha saputo né affrontare i terroristi né garantire la sicurezza dei giovani scesi in piazza per denunciare le brutalità e gli abusi della polizia contro cittadini innocenti».
Il primo nemico delle forze dell’ordine nigeriane sono proprio i giovani. Migliaia di persone che avrebbero solo voglia di vivere in libertà e di godere di un futuro radioso.
Il missionario comboniano Filippo Ivardi si spende molto per far conoscere nel nostro Paese la situazione di repressione cui sono soggetti i giovani in diversi Paesi dell’Africa subsahariana, Nigeria e Congo in primis.
Il movimento #EndSars è nato proprio per porre fine alle violenze arbitrarie e alle brutalità sistematiche della polizia nigeriana. Ad ottobre 2020 nello Stato di Lagos in Nigeria, dove le proteste hanno avuto inizio, si è scatenata la violenza della polizia e una ventina di persone – giovani vigorosi, coraggiosi e moderni scesi in strada per dire no alla violenza – sono state trucidate.
Quell’eccidio è noto come Lekki massacre. Ada Iloanya, 20 anni, sorella di Chijoke Iloanya, scomparso nel 2012 durante i raid della polizia, aveva partecipato ad alcuni cortei di #EndSars nel 2020, contribuendo a rendere vive e partecipate queste manifestazioni di protesta.
Hauwa Shaffii Nuhu, altra 22enne dello Stato del Niger che ha partecipato ai cortei di Minna, città principale della regione, racconta nei dettagli il terrore nell’affrontare i poliziotti e il grido: «stop killing us». (smettete di ucciderci) dei ragazzi nigeriani.
Di fronte a questa resistenza partigiana così genuina, disarmata e terribilmente giusta, il resto del mondo resta a guardare.
Nella Repubblica Democratica del Congo dal 2019 è sorto un movimento di protesta nazionale molto ben organizzato sul territorio: si tratta di Lucha, che contiene entrambi i significati di “lotta” (contro la corruzione e la politica dispotica di Kabila prima e del suo successore Tshisekedi dopo) e di “lumiere”, ossia la luce in senso illuminista, in opposizione alle “tenebre” che avvolgono il Congo. Ma quale governo europeo ed istituzione comunitaria prende seriamente le difese degli attivisti congolesi?
«Lucha è un movimento cittadino di giovani che lottano per il cambiamento sociale – spiegano gli attivisti, il cui quartier generale è Goma. – Lucha è una parola spagnola che usiamo per indicare la lotta ma anche la luce».
Gli attivisti si sono mobilitati anche per denunciare l’inerzia della Monusco in Congo, la missione di peacekeeping delle Nazioni Unite, nel Paese dal 1999.
Di fronte alla violenza armata quello che dovrebbe essere un “esercito della pace” «non interviene» e anzi, alimenta il caos e la rivalità tra le milizie, denuncia la gente. Le proteste degli attivisti di Lucha contro la Monusco si sono accentuate in questi ultimi mesi, dopo un picco ad aprile di quest’anno sia a Beni che a Goma.
«Chiediamo solo due cose: che la Monusco se ne vada e che il governo congolese si assuma le sue responsabilità in modo che noi possiamo vivere in pace», ha detto Clovis Mutsova, attivista di Lucha, durante una delle proteste duramente represse dalla polizia.
Perchè questa immobilità delle Nazioni Unite? Si chiede la gente. Ed è la stessa domanda che si pongono i nostri missionari. Anche in Repubblica Centrafricana, dove opera suor Elvira Tutolo della Congregazione della Carità di Santa Giovanna Antida Thouret, i contingenti delle Nazioni Unite non prendono le difese del popolo. «Intervengono tardi e male», ripete suor Tutolo.
«Queste missioni delle Nazioni Unite sono composte da ragazzi senza esperienza che vengono da altri Paesi africani – dice la missionaria – e non sono di nessun aiuto, anzi. Intervengono quando oramai i ribelli hanno massacrato la gente». E anche qui, guai a manifestare il dissenso.
(La versione completa di questo articolo è stata pubblicata sul numero di luglio-agosto di Popoli e Missione).