Se nutri il despota, lui potrà divorarti. Mentre i militari russi invadono l’Ucraina, in Occidente è esploso il dibattito su come arginare il potere di Putin e la dipendenza dalle sue risorse: gas in testa.
E crescono i timori di un’annessione di Taiwan da parte del regime cinese, che in realtà considera l’isola già una regione della Repubblica Popolare.
La disputa ruota anche intorno alle “terre rare”, 17 elementi da cui si ricavano metalli per produrre almeno 200 prodotti della nostra società tecnologica, come microchip, telefoni cellulari, ecc.
La Cina è il più grande produttore di terre rare e detiene un quasi monopolio nella loro raffinazione. Dodici anni fa ha bloccato le esportazioni in Giappone, nel confronto sulle isole Senkaku.
E lo scorso febbraio ha varato sanzioni per due aziende belliche statunitensi, Lockheed Martin e Raytheon, in risposta ai contratti approvati da Washington per il mantenimento del sistema missilistico difensivo di Taiwan.
In queste “contromisure” ci sarebbe di nuovo il blocco all’export dei preziosi metalli.
Gli USA si stanno sganciando dalla filiera cinese importando dall’Australia e aumentando la produzione interna.
Anche l’Europa vuole liberarsi dalle importazioni dei magneti cinesi, che coprono addirittura il 98% del suo fabbisogno.
Il piano prevede 14 progetti spalmati in Finlandia, Norvegia, Svezia per le estrazioni, in Polonia per la separazione, in Estonia per gli impianti metallurgici, in Germania e Slovenia per la fabbricazione di magneti, e in Belgio e Francia per il riciclo.
Dopo 20 anni di scambi intensi, le democrazie dell’Ovest si sentono sotto ricatto e temono frizioni.
Ma non mancano i paradossi: la Cina non riuscendo più a rispondere al consumo interno, sta importando le terre rare dal disastrato Myanmar, che nel 2020 è risultato il terzo bacino al mondo.
Ma anche dal Congo e altri Paesi impoveriti, dove i minatori sono schiavi. Si riuscirà riformare un’economia globale su cui pesa l’incubo della guerra e dello sfruttamento?