Ad Amman una sartoria per le donne irachene

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Nella parrocchia San Giuseppe di Jabal ad Amman, in Giordania, un gruppo di ragazze irachene scappate dall’Isis è diventato protagonista di una storia di rinascita: con il progetto “Rafedìn – Made by Iraqi girls” è stato aperto un laboratorio sartoriale.

In concomitanza con la prossima Giornata internazionale dei diritti della donna, l’8 marzo, il progetto “Rafedìn – Made by Iraqi girls” compie sei anni.

«Nel 2016, quando abbiamo iniziato quest’avventura, mai avrei pensato che potesse durare così tanto. In questi anni tanti amici ci hanno sostenuto e tante ragazze irachene hanno avuto la possibilità di imparare un mestiere e di guadagnarsi la dignità e qualcosa per vivere».

Commenta così don Mario Cornioli, fidei donum della diocesi di Fiesole in servizio al Patriarcato latino di Gerusalemme e da vari anni nella parrocchia San Giuseppe di Jabal ad Amman, in Giordania, per operare a fianco dei profughi cristiani arrivati dall’Iraq in fuga dall’Isis.

Rafedìn è un progetto ideato dal missionario italiano con l’intento di assicurare una formazione professionale alle donne irachene, grazie alle competenze di sarte e stilisti italiani che hanno insegnato alle ragazze come realizzare i primi modelli e creazioni.

I capi realizzati sono una combinazione di design italiano e stoffe locali che riflette il forte legame tra Oriente e Occidente: i tessuti utilizzati, infatti, sono sete che arrivano dall’Italia, ma anche cotoni di kefiah tipici della Palestina e della Giordania.

L’obiettivo del progetto, però, non è solo quello di insegnare alle ragazze irachene il mestiere di sarte:

«Con Rafedìn – spiega don Cornioli – cerchiamo di assicurare attenzione e opportunità alle donne irachene scampate alla violenza dell’Isis e rifugiate in Giordania: un modo per tutelarle e rispettarle nella loro dignità».

Le giovani arrivano da Kirkuq, Mosul, Ninive. Tutte hanno ricevuto minacce di morte in quanto cristiane, e in una sola notte, quella della fuga, hanno perso casa, lavoro, la vita quotidiana di sempre.

Ma tutte sono accomunate da una grande fede in Gesù, che è la roccia salda alla quale restano ancorate. All’inizio erano dieci ragazze.

Presto il numero è raddoppiato. Due sarte italiane, amiche di abuna Mario (come viene chiamato il missionario), sono arrivate ad Amman con il preciso compito di tenere un corso intensivo di cucito. E da scampoli di stoffe sono stati realizzati abiti che fanno invidia alla moda più trendy, ma anche papillon colorati venduti con il passa-parola e tramite web.

Le giovani sarte, un anno dopo l’inizio di quest’avventura, hanno addirittura cucito una casula da donare a papa Francesco.

Nella lettera di accompagnamento hanno scritto: «Siamo ragazze irachene rifugiate in Giordania. Siamo state forzate a lasciare il nostro Paese, scappando dal terrorismo a causa della violenza di gruppi di banditi che si fanno chiamare Stato Islamico.

Abbiamo dovuto lasciare tutti i nostri averi per salvare la nostra vita e la nostra fede nel Signore Gesù Cristo. […] Abbiamo cucito questa casula con gli scarti del nostro lavoro.

Anche noi siamo state “scartate” da uomini malvagi che ci hanno cacciato dalla nostra terra. Ma dagli scarti tante volte può nascere una cosa bella e utile per dare gloria al Signore».

«Non sappiamo se il papa ha mai indossato la casula che le ragazze gli hanno regalato – commenta abuna Mario – ma siamo certi che lui prega ogni giorno per loro e per tutti i profughi iracheni e siriani che sono stati costretti ad abbandonare le loro case».

D’altronde, la filosofia del progetto Rafedìn è proprio questa: anche dagli scarti possono nascere cose belle:

«Le ragazze – spiega il missionario – a causa della loro fede sono state scartate da uomini cattivi che hanno preso le loro case, la loro terra e il loro futuro.

Arrivate in Giordania si sono sentite accolte, da una parte, ma nello stesso tempo nuovamente scartate da una società e da una mentalità orientale che non aiuta, soprattutto se sei donna e rifugiata.

Quindi il lavoro da fare era guarire questa ferita provocata dalla situazione: insieme ad altri amici ci siamo detti che andava bene aiutare i nostri fratelli profughi con cibo, medicine ed affitti, ma che avremmo dovuto andare oltre l’emergenza ed iniziare a pensare un modo per curare le loro ferite.

Quello che abbiamo fatto è soltanto aver creduto in loro, offrendo una nuova possibilità».

E le ragazze, impegnandosi in questo progetto, hanno reagito diventando protagoniste di resilienza e rinascita: dopo tanta sofferenza, hanno ritrovato la speranza e un po’ di normalità.

L’atelier è, infatti, un luogo in cui le giovani donne possono sentirsi libere, socializzare, creare dei legami, riscattarsi, riacquistare fiducia nell’altro.  ricevono il visto.

 (Questo articolo è stato pubblicato sul numero di febbraio di Popoli e Missione in uscita).