Gabriel Boric, nuovo presidente del Cile, riporta la sinistra al potere. Socialdemocratico, 35 anni, eletto deputato nel 2014 dopo essersi ritagliato un ruolo nel movimento di protesta studentesco, è il più giovane presidente della storia di questo paese. Boric dovrà ora occuparsi anche della questione dei Mapuche, perseguitati e senza terra. Gli verranno finalmente riconosciuti i loro diritti?
In Cile la repressione contro la maggiore etnia indigena, i Mapuche, che ha avuto inizio secoli fa con l’arrivo dei Conquistadores, è continuata fino ad oggi. L’auspicio è che cambi qualcosa con l’elezione del nuovo presidente.
Dallo scorso settembre il presidente uscente Sebastián Piñera ha militarizzato le due regioni del Sud del Paese dove più consistente è proprio la presenza dei Mapuche, la Araucanía ed il Biobío.
Secondo Amnesty International il Paese negli ultimi tre mesi ha «diminuito in modo sostanziale» i diritti di questa etnia, mentre un paio di indios sono stati uccisi dalle forze dell’ordine nel Sud del Cile.
Ma chi sono questi indios e, soprattutto, che cosa vogliono? I Mapuche, il cui nome significa “popolo della terra (da Che, Popolo”, e Mapu, “della Terra”) sono una popolazione amerinda originaria del Cile meridionale e del Sud dell’Argentina.
In tutto sono due milioni e rappresentano l’etnia indigena da cui discende oltre il 10% della popolazione cilena.
Il problema è che non hanno quasi per nulla terre e, proprio per ottenere una “patria Mapuche”, lottano da secoli. Non a caso il più lungo conflitto della storia dell’umanità li vede protagonisti.
Si tratta della “guerra di Arauco”, combattuta nella regione dell’Araucania da questo fiero popolo indigeno contro i coloni spagnoli tra prima metà del Cinquecento ed il 1881, ossia per ben 345 anni.
Le ostilità iniziarono con la battaglia di Reynogüelén, nel 1536, vinta dai conquistadores e gli scontri proseguirono alternandosi a periodi di tregua.
La situazione iniziò a normalizzarsi nel 1818, quando il Cile si rese indipendente dagli spagnoli, che continuarono però le ostilità contro i Mapuche, che ambivano a una piena autonomia.
Costituirono anche uno Stato indipendente, ma dopo nuovi scontri, tra il 1881 e il 1883, questo fu annesso alla nazione cilena e il secolare conflitto ebbe così fine.
Sotto la dittatura di Pinochet
Durante la dittatura di Pinochet (1973-1990) patirono immani torture. Il regime militare, infatti, non ammetteva che nel Paese andino vivesse una comunità indigena: incarcerò i leader della comunità, proibì l’utilizzo della lingua mapuche in pubblico, il mapudungun, vietò l’insegnamento della loro cultura nelle scuole dove risiedevano numerosi membri di questa popolazione, multò e arrestò le persone appartenenti alla comunità con l’accusa di blasfemia, in quanto cristiani sincretici.
Il regime di Pinochet usò gli stupri etnici sulle donne mapuche, per far sì che queste generassero genia creola, proibì che nelle province a maggioranza indigena giungessero viveri e medicine, approvò espropriazioni di terre per sfruttare questi luoghi e cercare di ripopolare le zone con gente di stirpe creola, attuò l’assimilazione forzata per quei Mapuche che vivevano in città o frequentavano le università.
Penetrò militarmente le loro terre con l’ordine di sparare su chiunque protestasse o tentasse di rivendicare la propria identità. I Mapuche sotto la dittatura di Pinochet persero ben quattromila uomini, donne e bambini. I sopravvissuti vivono attualmente lungo i territori meridionali di Cile e Argentina; alcuni mantengono le proprie tradizioni e continuano a sostenersi attraverso l’agricoltura, ma una crescente maggioranza di loro si è trasferita nelle città in cerca di migliori opportunità.
Arresti arbitrari
Negli ultimi 30 anni, tornata la democrazia, se da un lato c’è stato un tentativo da parte del governo del Cile di stemperare alcune delle iniquità del passato – attraverso per esempio il riconoscimento dell’insegnamento del mapudungun, ed interventi a favore della tutela della loro cultura -, dall’altro è la maggioranza dei Mapuche a dichiararsi non solo insoddisfatta, ma addirittura ancora vittima di cocenti discriminazioni, incluso il ricorso ad arresti arbitrari. Proprio come accaduto di recente sotto il governo di Piñera.
Per questo motivo, rappresentanti delle organizzazioni Mapuche si sono unite alla Organizzazione delle Nazioni e dei Popoli non rappresentati (UNPO) in cerca di riconoscimento e protezione per la loro cultura ed i loro diritti territoriali.
Secondo la giornalista Monica Zornetta, che da anni studia le lotte degli indios Mapuche e che ha scritto il libro “Alla fine del mondo.
La vera storia dei Benetton in Patagonia” (Stampa Alternativa editore), i Mapuche della Patagonia «hanno un rapporto spirituale, di dialogo con la loro terra, che rappresenta la loro vita: il loro passato, il loro presente e il loro futuro. La terra è ciò che crea la loro identità di popolo. Non la sfruttano, ma vi costruiscono un rapporto simbiotico di cura e rispetto per trarne poi sostentamento».
La Zornetta racconta di come all’inizio degli anni Novanta la famiglia Benetton rilevò una importante società un tempo di proprietà inglese, la Compañia de Tierras Sud Argentino e con essa gli oltre 900mila ettari di terra che la società possedeva, diventando in questo modo uno dei più grandi proprietari terrieri dell’Argentina.
Lì allevano pecore e bovini per lana e carne. Da allora si è sviluppato un conflitto con i gli indios, e in questa lotta per i diritti mapuche è intervenuto per cercare di stemperare le tensioni anche il Nobel per la Pace, Adolfo Perez Esquivel.
Tentativi di pacificazione però inutili, dal momento che le terre rivendicate dagli indigeni continuano ad essere loro negate. Oltre ai Benetton ci sono molte altre compagnie, anche minerarie ed idroelettriche, in Patagonia e nella Terra del Fuoco.
La scommessa di Elisa
La protesta dei Mapuche per riavere la loro terra è sempre stata pacifica, almeno sino a quando è nata la Resistencia Ancestral Mapuche, un movimento contro l’occupazione delle terre della comunità indigena nato nel 2013 e che a volte ha usato anche metodi più spicci, come le bottiglie Molotov e le occupazioni violente, per rivendicare i propri diritti.
Dalla fine di luglio di quest’anno, tuttavia, questi indios hanno una bandiera che li rappresenta ai massimi livelli.
Si tratta di Elisa Loncón, la presidente dell’Assemblea Costituente che dovrà scrivere la nuova Magna Carta del Cile.
Nata 58 anni fa nel villaggio di Lefweluan, nella provincia ribelle dell’Araucania, eletta con una maggioranza formata da esponenti di sinistra ed indipendenti, la Loncón ha fatto subito capire che uno degli assi centrali dei lavori della Costituente dovrà essere il riconoscimento del Cile come Stato plurinazionale