Sudan: dimesso il premier Hamdok, il popolo chiede l’uscita di scena dei militari

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«Nella notte tra il due e il tre gennaio il primo ministro Abdalla Hamdok si è dimesso. Si tratta di un passo inevitabile, ma verso dove? Siamo al bivio fra dittatura militare e anarchia totale?».
Dubbi ed incertezze sul futuro vacillante del Sudan assalgono la società civile che ha molto lottato (e continua a farlo) per non essere sopraffatta dai militari.
La domanda legittima su che cosa accadrà dopo queste dimissioni ci giunge da una fonte interna legata alla Chiesa cattolica, che resta nell’anonimato.
«Purtroppo – dice – la società civile che ha adottato lo slogan  “niente negoziazioni” sembra non avere proposte da mettere sul tavolo. Anche perchè la piattaforma è molto divisa ed annuncia per gennaio altre sei date di protesta».
 Forte della scelta audace del primo ministro Hamdok (dopo il colpo di Stato del 25 ottobre è rimasto per diverse settimane agli arresti domiciliari) che non ha ceduto al power sharing, la piattaforma civile annuncia una serie di manifestazioni praticamente a giorni alterni.
Chiedendo un governo formato dai soli civili.
La decisione del premier era stata annunciata domenica scorsa tramite i canali ufficiali televisivi, ed è giunta ben sei settimane dopo il ritorno del premier in carica.
Il movimento pro-democrazia del Sudan, sotto il cappello della Resistance Committee ha sempre rifiutato un accordo giudicato “non paritario” tra i militari e il primo ministro sotto scacco, e ha continuato a manifestare contro quello che chiama «power grab», o furto di potere da parte dell’esercito.
Antonella Napoli, giornalista africanista appena rientrata dal Sudan, ci ha spiegato che «la società civile, formata da soprattutto da giovani e da moltissime donne, non accetterà mai un compromesso con l’esercito».
«La popolazione – dice Napoli – è molto determinata a non mollare e proseguirà indubbiamente la sua protesta finchè non otterrà ciò che chiede».
Troppo fresco è il ricordo della lunga dittatura sanguinaria di Omar Al-Bashir (si è macchiato di crimini di guerra, guidando il Paese dal 1989 al 2019), e forte il timore che dietro questi generali si nasconda l’entourage del vecchio presidente deposto.
«Questo è un popolo che ha molto sofferto e molto combattuto – spiega Antonella Napoli, autrice del libro ‘Il vestito azzurro’ sui giorni della rivolta del 2019 –
Ha vissuto sulla propria pelle anni di dittatura spietata ed è proprio quell’esperienza a spingere oggi le persone a non cedere ad un compromesso tra Hamdok e i generali».
Sta di fatto che in questo mese e mezzo di trattative Hamdok non è riuscito a formare un nuovo governo e il negoziato si è interrotto.
«Ho cercato in ogni modo di evitare che il nostro Paese precipitasse nel baratro – ha detto il dimissionario premier nel suo discorso ufficiale –  Ora la nostra nazione si sta avvicinando ad un pericoloso punto di svolta, che potrebbe minacciare la sua sopravvivenza se non urgentemente rettificato».
Qualche giorno fa la nostra fonte a Khartoum ci aveva raccontato che in città ponti, strade e linee telefoniche erano stati chiusi per tutto il pomeriggio.
E nelle manifestazioni del 2 gennaio c’erano stati altri 3 morti in strada. Vittime che si vanno a sommare alle altre decine di persone uccise durante i cortei delle settimane passate.