Sulla stampa nostrana, il tema migratorio è spesso oggetto di fraintendimenti, strumentalizzazioni e luoghi comuni. Col risultato che si tende a descriverlo come un fenomeno in aumento, apparentemente incontrollabile e pericoloso per la stabilità e la sicurezza dei paesi europei. Ma la situazione è davvero così allarmante? Solitamente si ritiene che i flussi riguardino prevalentemente l’Europa e l’America del Nord, ma secondo lo studio “Africa in movimento: Dinamica e motori della migrazione a sud del Sahara”, pubblicato nel novembre 2017 dall’Agenzia dell’Onu per l’Alimentazione e l’Agricoltura (Fao) e dal Centro di Cooperazione Internazionale nella Ricerca Agronomica per lo Sviluppo (Cirad), il 75% di coloro che nell’Africa Sub-Sahariana hanno deciso di migrare sono rimasti all’interno del continente.
I rilevamenti sulle migrazioni effettuati dalle Nazioni Unite, nel 2017, rilevano che l’Africa ha ospitato 24,7 milioni di migranti, contro i 14,8 milioni registrati nel 2000 a livello globale. Sempre stando alla stessa fonte, nel 2015 la maggior parte dei migranti nati in Africa che vivevano al di fuori del continente risiedevano in Europa (9 milioni), in Asia (4 milioni) e in Nord America (2 milioni). I dati raccolti in questi anni hanno anche evidenziato lo stretto rapporto esistente tra le risorse accumulate dalle famiglie e la loro effettiva disponibilità a migrare. I più poveri, quelli cioè che sopravvivono in condizioni di forte esclusione sociale (ad esempio, nelle grandi baraccopoli delle megalopoli africane o in regioni rurali depresse), non si spostano affatto, semplicemente perché non dispongono delle risorse economiche per farlo. I migranti, invece, che hanno disponibilità limitate, preferiscono spostarsi nei paesi limitrofi. In termini di numero di immigrati, il Sudafrica è il paese di destinazione più significativo in Africa, con circa 3,1 milioni di migranti internazionali che risiedono nel paese (circa il 6% della sua popolazione totale). Solo una parte dei migranti africani si allontana di molto dal proprio paese d’origine.
Ecco, allora, che l’Europa diventa la prima destinazione di coloro che arrivano dal Nord Africa, cioè da paesi come Tunisia, Marocco ed Egitto. Mentre il 93,6 per cento di migranti africani che provengono dall’Africa occidentale – Mali, Senegal, Gambia, Nigeria – non lascia affatto il continente, ma si trasferisce in un altro paese dell’Africa occidentale. Per quanto concerne invece l’Africa Centrale, il 40 per cento dei migranti che provengono da questo settore geografico, raggiungono l’Africa orientale (Kenya, Tanzania, Etiopia).
La porosità delle frontiere, certamente, alimenta la mobilità. Riguardo, in particolare, al numero dei rifugiati all’interno del continente, secondo l’ultimo rapporto annuale Global Trends, pubblicato dall’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, nel 2017, si è registrato un particolare incremento nell’Africa Sub-Sahariana, dove sono aumentati di 1,1 milioni (+22%), raggiungendo la ragguardevole cifra di 6,3 milioni di unità. Inoltre, cinque delle dieci nazioni che, secondo l’Unhcr, hanno prodotto il maggior numero di persone costrette alla fuga sono proprio in Africa: Burundi, Repubblica Centrafricana, Sud Sudan, Sudan e Repubblica Democratica del Congo (Rdc). In quest’ultimo paese, nel corso del 2017, la guerra si è estesa, particolarmente sul versante orientale, costringendo milioni di civili, residenti soprattutto nelle provincie del Nord e Sud Kivu, dell’Alto Katanga e della regione del Kasai, ad abbandonare le proprie abitazioni. Un esodo che nell’ex Zaire ha prodotto il raddoppio del numero degli sfollati interni da 2,2 milioni a 4,4 milioni, concentrato in particolare nel Kivu settentrionale, da dove sono fuggite 1,1 milioni di persone. Sempre secondo la stessa fonte, la maggior parte delle persone in fuga da conflitti armati e violazioni dei diritti umani provengono dall’Africa Centrale e Orientale, in particolare dalla Repubblica Centrafricana, Rdc, Burundi, Eritrea, Sudan, Nigeria, Mali e Somalia. È evidente che i tratti caratteristici della geopolitica africana contemporanea acuiscono la fenomenologia migratoria. La crisi libica ne è la conferma eclatante, innescando peraltro, il perverso meccanismo della tratta di esseri umani. Ciò non toglie che assecondare la retorica dell’invasione, come spesso si legge sui giornali, è decisamente fuori luogo. Siamo, infatti, di fronte ad uno scenario che merita un’attenta disamina, tenendo conto del fatto che l’attività predatoria, legata al business delle commodity (materie prime) di molte potenze straniere è una delle principali cause dei conflitti armati, congiuntamente alla povertà che affligge vasti settori delle popolazioni autoctone e al deficit di virtuosismo da parte delle leadership locali. In effetti, fenomeni come il land grabbing (il cosiddetto accaparramento dei terreni da parte di imprese straniere) – con modalità diverse, a seconda dei paesi – unitamente allo sfruttamento della manodopera, sono fenomeni ben radicati che acuiscono la mobilità umana.
Com’è noto, i governi europei, in linea di principio, sono disposti ad accettare i “rifugiati” e non i “migranti economici”. Si tratta di una distinzione fuorviante. Ammesso pure che vi fossero solo due categorie, come affermava, ai tempi della guerra fredda, nel 1973, Egon Kunz, che elaborò la suddetta distinzione, meglio nota come “push/pull theory” – coloro che partono per necessità (i pushed) e chi lo fa invece per scelta (i pulled) – il paradosso è evidente. Se il migrante fugge dalla guerra o è perseguitato da un regime totalitario può essere accolto (qualificandosi appunto come rifugiato), se invece fugge da inedia e pandemie, in quanto nel suo paese non esistono le condizioni di sussistenza, non può partire e deve accettare inesorabilmente il suo infausto destino. E dire che molti popoli del Sud del mondo sono penalizzati proprio dalla globalizzazione dei mercati che non hanno certo inventato i migranti.
Al di là, comunque, delle ragioni politiche ed economiche che determinano situazioni di grave instabilità a livello continentale e dunque generano mobilità umana in Africa, il dato demografico merita una seria e attenta valutazione. Nel 1960, l’Africa contava circa 284 milioni di abitanti, mentre oggi sono oltre un miliardo (circa 1.216.000.000 abitanti). Se l’Italia fosse cresciuta allo stesso ritmo oggi gli italiani sarebbero 185 milioni. Secondo i dati Eurostat, la popolazione europea è destinata a restare pressoché invariata da qui al 2050, mentre quella africana continuerà a crescere. A metà del secolo la popolazione mondiale vivrà per il 25% in Africa (era il 13% nel 1995 e il 16% nel 2015) e solo per il 5% in Europa. Le stime degli esperti indicano anche che si registrerà un graduale e costante aumento della popolazione in età lavorativa.
Nel frattempo, si ridurranno le fasce passive, sia quella troppo giovane, che quella troppo anziana, per essere considerate produttive.
Un destino opposto a quello dei paesi occidentali, che saranno abitati da una popolazione sempre più anziana. Lo si evince dal cosiddetto “dependance index”, un indicatore che misura la percentuale delle persone di età inferiore ai 15 anni e superiore ai 64, rispetto alla fascia lavorativa. Se, ad esempio, l’indicatore misura il 70%, significa che ci sono 70 bambini/anziani ogni 100 persone in età lavorativa. Più alto è questo indicatore, maggiore è il numero di coloro che vivono in una condizione di dipendenza. Ebbene, nel 2010, il continente con il dependance index più alto era proprio l’Africa, con 80 persone in età non attiva (in gran parte minori) su 100 in età lavorativa. Di converso, l’Europa in quell’anno vantava un indice del 47%. L’Onu, però, prevede un ribaltamento in poco meno di un secolo. L’Africa diventerà così il continente per eccellenza della produttività, con un indice del 56% contro l’82% del Sud America e l’80% del Vecchio Continente. Da rilevare che già nel 2010, gli africani erano un miliardo, mentre gli europei risultavano essere 740 milioni. Ma c’è un altro dato sul quale sarebbe opportuno riflettere: il 31% delle 727mila persone che hanno ottenuto la cittadinanza in uno dei Paesi dell’Unione Europea nel 2015 è nato in Africa. Ed è proprio la diaspora che sarà sempre più chiamata a giocare un ruolo di ponte tra i due continenti.
Una cosa è certa: la posta in gioco è alta!
Come ha rilevato recentemente monsignor Gian Carlo Perego, arcivescovo di Ferrara-Comacchio e profondo conoscitore dei fenomeni migratori, “sembra mancare oggi un ‘progetto europeo’ che trovi nella solidarietà il suo punto di forza per dare futuro al nostro Continente. Anche la destrutturazione degli istituti di solidarietà, frutto dei movimenti sociali e storicamente garantiti nei paesi europei, rischiano di indebolire l’accesso ai diritti sociali. E senza solidarietà si muore, perché vengono a mancare la vita (il tasso di mortalità nei 28 Paesi europei è superiore al tasso di natalità), le relazioni, i legami, lo scambio, che sono le fondamenta per avere un avvenire di dialogo sociale e di pace, di sviluppo”.
Muri dentro e fuori ritornano e la libertà di partire e la libertà di restare sembra oggi un diritto non esigibile.