Il commento di padre Daniele Moschetti da Castel Volturno e di Marco Omizzolo.

Dietro la morte di Satnam Singh un intero sistema di sfruttamento

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Quello di Satnam Singh, pur così atroce e grave, «non è il primo caso di disumanizzazione totale del lavoratore e non sarà l’ultimo, aimè.

Sono saltati tutti i valori minimi: si considerano i braccianti nei campi come numeri.

Quante volte è successo anche da noi a Castel Volturno che i braccianti o i muratori rimanessero feriti, privati di un arto, lasciati davanti ad un pronto soccorso, senza alcun interesse per la loro sorte?!».

Ricordiamo «anche il caso di Thomas Daniel, del Ghana, morto a Pianura nel 2020».

A parlare con noi dalla missione comboniana di Castel Volturno, in Campania, è padre Daniele Moschetti, per molti anni missionario in Sud Sudan.

Commenta la scioccante morte di Satnam Singh, 31 anni, indiano e bracciante agricolo nella provincia di Latina, lasciato davanti casa a morire dissanguato, dopo aver perso un braccio nel lavoro dei campi.

«Gli irregolari senza documenti vengono impiegati per pochi euro e senza contratto anche nell’edilizia dalle nostre parti, e a quel punto sono come lavoratori-fantasma.

Non si deve sapere nulla di loro», prosegue Moschetti.

«Quanto accaduto a Satnam Singh segna la coscienza di questo Paese ma non di questo governo».

A scriverlo è Marco Omizzolo sul quotidiano Domani.

«Che disvela l’intima natura di un sistema di sfruttamento – scrive – che permette a padroni italiani e a caporali di ottenere profitti milionari a fronte di un lavoro che costa la vita a migliaia di lavoratori e lavoratrici spesso di origine straniera».

Sociologo, attivista, giornalista e docente, Omizzolo da sempre è impegnato nella difesa dei diritti dei braccianti sikh nelle campagne pontine.

Privato di un arto dopo un incidente nell’azienda agricola Agrilovato, Satnam è stato abbandonato davanti casa, senza soccorso medico.

«Siamo sconvolti e pronti a mobilitarci – racconta Harbhajan Ghuman del collettivo dei braccianti indiani pontini – oltre che ad aiutare la moglie del nostro connazionale in tutte le forme possibili».

Il collettivo da anni è impegnato contro ogni forma di sfruttamento e violenza contro lavoratori e lavoratrici indiani.

«Dopo anni di lotte, di denunce e di processi, molti anche vinti, continuiamo a vivere episodi brutali che meritano una risposta netta da parte nostra e delle istituzioni italiane. Siamo stanchi di pagare con la vita la fame di denaro dei padroni italiani», continua Harbhajan.

Il bracciantato agricolo in molte regioni italiane è sfruttato e considerato sub-umano dai caporali e dai proprietari delle piccole e medie aziende (non solo laziali), chiamati impropriamente “i padroni”.

E che però di fatto da padroni si comportano.

Svilendo il lavoro, la vita e il sacrificio di migliaia di braccianti senza contratto (nel Lazio per lo più dal Punjab, in India), costretti a lavorare anche 12 ore di fila.

Forme di schiavitù moderna che non trovano adeguato contrasto da parte delle nostre istituzioni.

E’ ora di tornare al rispetto della persona umana, al riconoscimento dei giusti diritti dei lavoratori; ad una diversa amministrazione del bracciantato agricolo che non può equivalere a forza-lavoro schiavistica.