Dove un giornalista muore la democrazia è in crisi. Lo conferma la strage di 10 reporter uccisi il 30 aprile scorso a Kabul in un duplice attentato dell’Isis in cui sono morte 25 persone. La Giornata mondiale della libertà di stampa che si celebra oggi in tutto il mondo è nata in Africa nel 1991 a Windhoek, capitale della Namibia, dove un gruppo di giornalisti africani si riunì per stilare una dichiarazione sull’importanza della libera informazione negli Stati africani. Una magna charta ispirata all’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo in tempi in cui internet non era ancora la potente rete di oggi. In piena era delle “post verità”, dalle fake news alle censure politiche, 27 anni dopo il mondo dell’informazione è ancora intrappolato nelle maglie di nuove e vecchie pastoie. Che ad alcuni possono costare la vita, come ai 65 reporter uccisi nel mondo lo scorso anno nello svolgimento della loro professione, mentre i colleghi in carcere sono 326, quelli tenuti in ostaggio 54 e due gli scomparsi. Tra le vittime di quest’anno Jan Kuciak, 27 anni, redattore del sito Aktuality, ucciso con la fidanzata il 26 febbraio scorso mentre conduceva indagini sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta italiana in Slovenia, con coinvolgimenti che toccano partiti e personaggi politici al governo e dimissioni eccellenti seguite alla sua morte. Anche Yser Murtaja, 30 anni era un coraggioso reporter palestinese dell’Agenzia Ain Media. Stava documentando le proteste degli abitanti della Striscia di Gaza di venerdì 6 aprile scorso e indossava un giubbotto antiproiettile con la scritta Press ben visibile.
Dove la democrazia è violata
Yan e Yser sono gli ultimi nomi di una lunga lista di uomini e donne che hanno scelto un mestiere difficile come quello del servizio alla verità anche a prezzo della vita. Martiri laici con una passione che è servizio alla società, alla libertà di opinione e alla democrazia il cui sacrificio deve essere ricordato come un memento che risveglia le coscienze. Lo dimostra il rapporto di Reporters sans frontieres (Rsf) che annualmente aggiorna la mappa della libertà di stampa a livello internazionale, colorando di molte sfumature di rosso fino al nero i Paesi in cui leader e regimi totalitari mantengono il potere censurando le opinioni del loro popolo a prezzo di violazioni delle libertà personali che non possono essere taciute. «Una stampa libera può essere buona o cattiva, ma senza libertà non potrà che essere cattiva» scriveva Albert Camus e i fatti lo dimostrano. Il Word press freedom 2017 racconta un mondo in cui i poteri politici ed economici sono sempre più collegati e rafforzati dalle reciproche connivenze, mantenute grazie ad una vigilanza costante nei confronti dei media. Anche in epoca di internet persino le democrazie di lunga data sembrano essere scese a patti con i principi basilari della società civile. Se la Norvegia è al primo posto nel rispetto della libertà di stampa e la Corea del Nord è all’ultimo (180esimo), in mezzo troviamo alcuni “scivoloni” come gli Stati Uniti di Donald Trump (dal 45esimo al 43esimo posto), il Regno Unito (meno due posti) il Cile e la Nuova Zelanda. Anche la Polonia di Jaroslaw Kaczynski ha perso sette posizioni nel 2017 (54esimo posto) per gli ostacoli agli organi di informazione indipendente. Stesso trend per l’Ungheria (71esimo posto)del riconfermato Viktor Orbàn, la Turchia di Tayyp Erdogan scesa al 155esimo posto, a pochi gradini dal 148esimo gradino della Russia di Vladimir Putin. Nell’insieme del planisfero elaborato da Rsf, cosparso di nazioni colorate di nero, in quasi due terzi (62,2%) dei Paesi hanno registrato censure più forti nell’informazione interna ed estera, mentre il numero degli Stati virtuosi è diminuito del 2,3%. In controtendenza invece l’Italia che si attesta al 52esimo posto scalandone ben 25 rispetto all’anno precedente, soprattutto grazie all’impegno dei giornalisti che si occupano di inchieste a rischio nei campi minati degli affari delle mafie.
Medio Oriente, Asia e Africa
Le criticità maggiori si confermano nella regione del Medio Oriente frammentato dal dramma dell’interminabile agonia della Siria e della guerra in Yemen, dove i reportage dai fronti caldi espongono i giornalisti a rischi gravi e continui. In Asia si registrano alcuni record negativi, come nel caso della Cina e del Vietnam (rispettivamente al 176esimo e al 175esimo posto) dove la libertà di stampa è praticamente una parola senza significato dato l’altissimo numero di blogger e giornalisti imprigionati o spariti nel nulla. Informazione in catene anche nelle Filippine (127 esime) del presidente Rodrigo Duterte, in Pakistan (139esimo) e in Bangladesh (146 esimo posto). Anche nel continente africano ci sono situazioni di costrizioni gravi della libertà dei media come in Tanzania dove il presidente Johm “Buldozer” Magfuli ha promesso «giorni contati per i giornali che incitano al dissenso. Non permetteremo che la Tanzania diventi una discarica grazie a loro, questo non accadrà sotto la mia amministrazione». Anche il Gambia spicca nella classifica di Rsf per la recente sentenza del 14 febbraio scorso della Corte di giustizia africana della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Ecowas) che ha ordinato al governo di «modificare o abrogare le leggi odiose» in base alle quali nel 2015 sono stati incarcerati quattro giornalisti dal regime dell’allora dittatore Yanya Jammeh.
Shifa, Anja, Dafne e le altre
Tra le vittime della difesa della libertà di informazione aumenta il nome di donne inviate sui fronti di guerra e nelle zone a rischio del pianeta. Scrive il report di Rsf che «gran parte di esse avevano in comune di essere giornaliste d’inchiesta esperte, combattiva, dalla scrittura pungente. Nonostante le minacce continuavano ad indagare, a svelare casi corruzione e altre vicende riguardanti autorità politiche o gruppi mafiosi. Hanno pagato con la vita le loro inchieste». Come la giornalista curda Shifa Gardi, 30 anni, redattrice del canale televisivo Rudaw, uccisa il 3 maggio 2017 dall’esplosione di una bomba nelle strade di Mosul. Anche il premio Pulitzer Anja Niedringhaus è stata uccisa a bruciapelo in Afghanistan il 3 aprile 2014, mentre Kim Wall è stata ritrovata morta il 23 agosto 2017 a Copenhagen, dopo avere visitato un sottomarino e averne intervistato il progettatore. Tragico finale anche per Gauri Lankesk, massacrata dalle raffiche di mitra il 5 settembre 2017 a Bangalore in India per i suoi articoli contro il sistema delle caste, e Miroslava Breach Velducea morta per mano ignota davanti all’ufficio del procuratore generale di Ciudad Juarez in Messico per le sue inchieste sui rapporti tra uomini politi e criminalità organizzata. Dafne Caruana Galizia, 53 anni, madre di tre figli era una giornalista investigativa ed è stata uccisa il 16 ottobre 2017 dopo avere postato un ultimo articolo di denuncia contro la corruzioni e gli affari sporchi che gravano intorno all’isola di Malta. Aveva scritto numerosi articoli di denuncia sui collegamenti di Joseph Muscat, primo ministro maltese nell’affare dei cosiddetti Panama Papers, accusato altri politici di avere conti all’estero su cui versavano i proventi della prostituzione. Per questo era stata denunciata per diffamazione e più volte minacciata di morte insieme alla sua famiglia. Figlia del vecchio leader del partito dei verdi di Malta, Dafne era abituata a pensare con la sua testa e a non guardare in faccia a nessuno. Le sue inchieste erano così documentate da mettere in crisi personaggi politici di primo piano maltesi e non solo: l’ultima inchiesta a cui stava lavorando era incentrata sui traffici che attraversano il Mediterraneo dalla Libia all’Italia, passando per Malta. Dopo la sua clamorosa uccisione, numerosi arresti hanno alzato il velo sui loschi traffici che attraversano il Mediterraneo. I colleghi italiani de L’Espresso hanno firmato un appello: «Grazie anche al suo giornalismo sappiamo oggi come l’isola dell’Unione europea, famosa solo per le polemiche sui migranti, si sia trasformata in qualcosa di tetro. Luogo dove impera il traffico di droga e ciò che porta con sé. Daphne non può essere morta invano. Per questo i giornalisti de L’Espresso firmano insieme questo appello a chi ha a cuore la verità, conscio o meno di quanto costi indagare, cercando di fare luce dove il potere vorrebbe ombra. Di quanto costi il giornalismo autentico a chi vuole raccontare i fatti. Ciao Daphne. Continueremo a farlo. Non ti lasceremo sola».
da Popoli e Missione – maggio 2018